Dalla parola “capolavoro” cerco di starne il più possibile alla larga . Principalmente per l’ovvio motivo che non ho nessun titolo per usarla, essendo teoricamente un giudizio da persone serie, ma anche perché è ormai diventata una di quelle parole dal significato fin troppo elastico, che cambia radicalmente a seconda del dominio preso in considerazione. Dal capolavoro in senso stretto (inteso come espressione massima in una specifica arte), ci si può restringere piano piano al capolavoro di genere, al capolavoro dell’autore, al capolavoro della sua fase artistica, al capolavoro del periodo, passando chiaramente anche per tutte le possibili combinazioni lineari dei precedenti. E capite che, restringi e restringi, si potrebbe affibbiare la parola “capolavoro” a qualsiasi cosa, per assurdo persino a “Il cartaio” di Dario Argento, che, come certamente sapete, già chiamarlo “film” è fargli un piacere.
Proseguendo nel restringere il contesto, all’estremo si arriva a ciò che la maggior parte della gente intende quando parla di “capolavoro”, cioè il puro e semplice: “Per me questo film spacca”. Insomma, avete già capito che con Freaks di Zach Lipovsky e Adam Stein mi è venuta una gran voglia di riesumare il vocabolo in questo sua accezione soggettiva, un po’ come lo usai entusiasta vent’anni fa quando vidi quel gioiello di Unbreakable raccontare i supereroi in modo così imprevisto e geniale. Freaks è un piccolo capolavoro non solo perché rappresenta per gli X-Men ciò che il film di M. Night Shyamalan ha rappresentato nel 2000 per i supereroi, ma anche perché usa una tavolozza di temi e toni così variopinta che non può non conquistare gli spettatori. La mia considerazione sui supereroi è ovviamente del tutto personale, ci sarà sicuramente un manipolo incarognito di appassionati di fumetti che considera Unbreakable spazzatura e probabilmente farà altrettanto con la rilettura dei mutanti fatta da Freaks. Ciò non toglie che prendere qualcosa che su carta nasce per essere leggero, visionario e caciarone e raccontarlo in modo asciutto e drammatico è una cosa che il cinema ha dimostrato più di una volta di saper fare benissimo.
Freaks è una pellicola che si rivela piano piano, con un inizio enigmatico che diventa sempre più chiaro al procedere della vicenda. Un uomo e una bambina asserragliati in casa, perché fuori c’è qualcosa di pericoloso. Un padre che cerca di educare la figlia Chloe a mentire, a essere qualcosa di diverso, a fingere di essere normale, anche se ancora non sappiamo come si definisca questa “normalità”. Il mondo esterno, spiato dalle finestre, che al contrario non sembra affatto ostile, solo stranamente immobile e dai tratti fiabeschi. La parola “paranoia” in quei primi momenti aleggia nell’aria come in 10 Cloverfield Lane, ma il padre è una figura amorevole e il rapporto con la bambina sembra quello giusto, è possibile che sia solo un pazzo?
Poi qualcosa comincia a svelarsi, il padre torna ferito, la bambina riesce a fuggire di casa e a vedere finalmente il mondo esterno. E quello che si scopre è una sorpresa continua, un intrigante meccanismo che aggiunge pezzi al puzzle fino a circa tre quarti della pellicola e che va ben al di là del semplice “il padre non gliel’ha mai raccontata giusta”. I superpoteri della bambina emergono progressivamente, assieme alla verità su quanto è accaduto nel mondo e nella casa. Su questo i registi sono straordinari nel riuscire a dosare sempre sapientemente misteri e spiegazioni, lasciandoci appagati dalle risposte e con un numero accettabile di nuove domande. Se vogliamo quella di Chloe è una delle origin story più belle e toccanti che siano state raccontate sul grande schermo. Una storia che non ha solo i riferimenti consueti degli X-Men ai temi della diversità e della tolleranza, ma che tocca anche gli ambiti della famiglia, della perdita dei genitori e della crescita.
Nella tavolozza di Freaks oltre a tutti questi temi, si mischiano appunto anche tante atmosfere e generi diversi tra loro. Quello più facile è ovviamente la fantascienza, anche se in fondo diventa così lampante solo più tardi, quando la storia ha ingranato, ma di sicuro è in generale anche un dramma e un thriller. In certi momenti è persino un horror, come nelle scene in cui Chloe apre la porta per vedere cosa c’è fuori (la bambina e il camioncino dei gelati sono immersi in un’atmosfera onirica e minacciosa che non può non ricordare quella di A Nightmare on Elm Street) o nell’apparizione della madre nello sgabuzzino (che deve invece tanto a un altro film di Shyamalan come The sixth sense).
La particolarità di Freaks, e quello che forse me lo fa apprezzare così tanto (e che per qualcuno sarà invece un inguaribile difetto) è il suo essere molto, molto teatrale. Non siamo esattamente in un one-room movie, ma fatta eccezione per qualche brevissima svisata all’esterno (le fughe di Chloe col nonno), la storia si svolge di fatto praticamente tutta in una casa. Anche il finale, che perlomeno all’inizio del film tutti ci aspetteremo come una spedizione dei protagonisti sulla montagna Madoc, è invece tutto giocato nell’abitazione, con solo qualche fugace inquadratura degli interni della base in cui tengono prigioniera la madre. Qualcuno dirà: “Sono solo motivi di budget”. Forse, anzi, molto probabile. Ma i bravi registi dai problemi e dalle limitazioni sul set sanno sempre tirarci fuori qualcosa di buono, e a volte anche di sbalorditivo (Benson e Moorhead dico a voi, e anche a te Spielberg). I poteri di Chloe, e in particolare quel potere così strano di “duplicazione” dello spazio e di bilocazione, non solo non richiedono effetti speciali, ma sono anche incredibilmente suggestivi e perfetti per la storia. Per il resto gli effetti sono ridotti all’osso ma anche straordinariamente ben giocati (l’invisibilità del nonno e la bolla temporale del padre, che si traduce in una slow motion ottimamente realizzata).
Tutto quello che vi ho raccontato sarebbe comunque poca cosa o, diciamolo meglio, sarebbe vano se Freaks non avesse avuto una protagonista eccellente come la piccola Lexy Kolker. Chloe è sempre al centro della scena, spesso in primi e primissimi piani (e non potrebbe essere diversamente, perché la pellicola è prima di tutto il dramma di quanto sta vivendo la figlia) e questa attrice che all’epoca aveva nove anni è di una bravura da mettersi a piangere. Oltre a essere una bambina pucciosissima, che all’inizio emoziona per la sua tenerezza, dimostra anche di essere sempre più indescrivibilmente cazzuta, come ogni mutante superpotente che si rispetti. Questa vi giuro che è una cosa che supera le mie capacità di ragionamento: come un’attrice così giovane, possa già avere queste capacità. Io questi li chiamo superpoteri belli e buoni.
Una nota finale su quella bestia strana che è Emile Hirsch. Sapete che io non capisco cos’abbia che non va? È un’attore di grande talento, con un viso belloccio e versatile, prolifico a livelli di Woody Allen (è ricordato per Into the wild, ma in realtà in meno di vent’anni ha fatto più di trenta film, di cui parecchi molto buoni) e fin dai tempi di The girl next door ha sempre regalato ottime interpretazioni. Ciò nonostante sembra uno di quegli attori destinati a non diventare mai un divo, uno di quelli che se in un discorso pronunciate il suo nome metà della gente vi guarda strano e vi dice “Chi?”. Non so, a volte davvero mi viene voglia di aprirgli una petizione su Change.org.
Vabbè, mentre ci ragiono su, comincio ad appendere il suo poster in camera e vediamo che succede.
Sulla parola capolavoro in senso generale sono d’accordo, anche se questo non mi è piaciuto a quel livello di capolavoro che tu dici, però è piaciuto comunque tanto anche a me 😉
Guarda, probabilmente mi è piaciuto così tanto non solo per i suoi meriti oggettivi (che ci sono eccome), ma anche per la tematica familiare a cui sono sempre molto sensibile 🙂