Il cinema è una meravigliosa macchina del tempo in grado di riesumare, e a volte anche far brillare, epoche storiche sulle quali nemmeno il più ottimista degli storici avrebbe ai tempi scommesso una lira. L’esempio recente più lampante è ovviamente quello del periodo nazista, che è stato raccontato un po’ in tutte le salse, non solo quelle doverosissime della documentazione storica, ma anche quelle più leggere dell’intrattenimento, dall’avventura, alla commedia, all’horror (la lista degli esempi è sterminata, ma i Predatori dell’arca perduta racchiude già da solo un bel po’ di generi).
Da qualche tempo a questa parte poi, soprattutto il genere di spionaggio (ma anche la recente bellissima serie Chernobyl di HBO) ha mostrato quanto un’epoca polverosa e pesante come quella dell’Unione Sovietica ai tempi della guerra fredda possa risultare oggi incredibilmente affascinante.
La storia raccontata da Sputnik del russo Egor Abramenko è ambientata proprio nell’URSS di quegli anni, un mondo perduto in cui è successo di tutto e di più, compreso l’ormai leggendario programma spaziale che dà il nome alla pellicola. Gli astronauti Veshnyakov e Averchenko sono in fase di rientro verso la Terra, tutto sembra andare come previsto, quando all’esterno della navicella accade qualcosa di strano. Noi spettatori vediamo da lontano il modulo spaziale arrivare al suolo grazie al paracadute, ma il ritrovo dei due astronauti gravemente feriti fa capire che qualcosa non è andato per il verso giusto.
Sputnik inizia così, con questa bella dose di mistero, e l’Unione Sovietica, con le sue gerarchie, le sue regole, i comitati, i segreti e i processi di stato, è il contenitore perfetto per la vicenda. Non solo, ma praticamente per tutta la sua prima parte Sputnik è una grandissima pellicola, da far pensare di trovarsi di fronte a un possibile capolavoro di genere. I personaggi sono disegnati perfettamente con pochi e abili tratti, la ricostruzione storica è credibilissima, la suspense è in continua crescita, la fotografia tra luci al neon e tonalità verdi alla Alien è indovinatissima, dialoghi e sceneggiatura sono estremamente curati e senza sostanzialmente nessuna sbavatura. Anche la regia asciutta e il ritmo compassato, che molto facilmente potevano diventare difetti, sono qui invece decisamente punti di forza, perché perfettamente adatti allo svolgersi “sovietico” della vicenda.
E poi ci sono gli effetti, in pratica legati esclusivamente alla creatura, che per un film del genere sono davvero incredibilmente ben fatti (con i due 2 milioni di euro di budget mi sembra che abbiano fatto un mezzo miracolo, spesso in produzioni più grandi si vede molto, ma molto di peggio). Va detto che l’alieno in Sputnik ha un minutaggio tutto sommato abbastanza esiguo (comunque ben gestito), ma le sue apparizioni sono sempre di ottimo livello e non credo riuscirei a trovare grossi difetti nemmeno riguardandolo. Anche il design della creatura è particolarmente ispirato, un mix viscido e ben riuscito tra un insetto e un cobra (e diciamocelo, un po’ anche il solito inevitabile xenomorfo di quel genio di Giger).
Tatyana Klimova, la studiosa di neuroscienze chiamata dal colonnello Semiradov per indagare sulla strana amnesia all’astronauta Veshnyakov, è la protagonista che non ti aspetti. Intelligente e bellissima, quasi androgina, ma anche apparentemente distante e pragmatica, al punto che il militare travisa questa sua freddezza per la stessa cieca ambizione da cui lui è affetto. Ma è invece tutt’altro, e lo scopriremo solo nel twist finale, quando capiamo che il bambino nell’orfanotrofio non è il figlio dell’astronauta, bensì è lei bambina (anche se si chiamava Tanya) e che quella è una storia del passato. Tatyana solo grazie al suo coraggio e alla sua determinazione è riuscita ad avere un’esistenza normale, riuscendo a camminare e costruirsi una vita di successo. Nel suo lavoro da medico usa quindi quella stessa forza che ha imparato da piccola, perché sa che a volte è l’unica strada per salvare la vita degli altri.
Queste sfaccettature della protagonista, e parzialmente anche del personaggio di Veshnyakov, danno alla pellicola uno spessore in più (anche se saranno completamente chiare solo alla fine). Sputnik non è insomma un monster-movie alla Life, non lo sarebbe anche per altri motivi, ma principalmente perché al centro della narrazione non c’è una creatura mostruosa, bensì gli esseri umani. In particolare c’è Tatyana, determinata a salvare Veshnyakov così come lei si è salvata molti anni prima dal suo personale orrore. Tutto questo emerge nella seconda parte, ma paradossalmente è proprio qui, dove il film probabilmente poteva sbocciare e diventare un’opera memorabile, che non riesce ad essere all’altezza delle promesse (o comunque non del tutto). Anche il fatto che l’astronauta in realtà sappia benissimo cosa sta succedendo, che sia perfettamente conscio della creatura e dei suoi atti, perché in completa simbiosi con lui, è una trovata eccellente ma la sceneggiatura non gli rende davvero giustizia.
Quello che succede è infatti poco più del solito “Fuga dalla base militare perché i militari non vogliono davvero aiutare i protagonisti, ma solo sfruttare la creatura come arma” e alcune scene ricadono quindi inevitabilmente nella stessa faciloneria (l’iniezione per far uscire il simbionte a comando, il medico pusillanime che come ultimo atto eroico confessa al telefono, il colonnello che diventa il villain). Non sono errori di per sé, e non sarebbero nemmeno particolarmente gravi. In fondo stiamo parlando di un horror di fantascienza e quindi non c’è niente di male nell’usare un po’ di cliché. È semplicemente il fatto di passare da una prima parte praticamente perfetta ad una successiva meno ispirata che non può non generare un po’ di insoddisfazione. Una delusione da confronto insomma, per intenderci quella che devono aver provato i fan dei Pink Floyd quando dopo un disco come The final cut hanno ascoltato A momentary lapse of reason.
Comunque sia, Sputnik ha vinto il premio Asteroide del Trieste Science+Fiction Festival di quest’anno (che viene assegnato al miglior film di un regista emergente, cioè che ha realizzato al massimo tre lungometraggi) ed è un riconoscimento che si merita tutto, soprattutto considerando che Egor Abramenko è alla sua opera prima.
Peccato che non abbiate capito il finale