Vedete, quando uno dice “Noi”, può farlo in due modi. Quello che sottintende che esista anche un ben distinto “Loro”, modo che chiamerei “divisivo” e che sciaguratamente è quello per cui è portata la specie umana, oppure quello che non sottintende un bel niente, ma il cui significato è semplicemente il più esteso possibile, modo che potremmo chiamare “comprensivo”.
L’individualismo sfrenato con cui nascono gli esseri umani non aiuta di certo ad afferrare questo secondo concetto, soprattutto nelle società in cui la definizione di “grave disagio” è aver finito i megabyte sullo smartphone. Se oggi siete preoccupati (e giustamente) per le derive che può avere il pensiero divisivo, immaginate un po’ come vi sareste sentiti negli anni ’80, quando la gente si svegliava ogni giorno per sorbirsi il quotidiano spettacolo di Stati Uniti e U.R.R.S. che giocavano a chi ce l’ha più lungo, atomicamente parlando. Non che fossero necessariamente anni peggiori dei nostri, da un certo punto di vista erano forse anche molto più semplici, ma erano quelli per eccellenza di muri e divisioni. Non a caso erano però anche gli anni degli USA For Africa e dei Band Aid, le super-formazioni che diedero vita a due degli eventi musicali più famosi di tutti i tempi. Il primo è stato il singolo We are the world e il secondo l’organizzazione del concerto Live Aid, entrambi per aiutare l’Etiopia messa in ginocchio da una terribile carestia. E la stessa USA For Africa, esattamente a un mese dal disastro nucleare di Chernobyl, organizzò una di quelle cose bizzarre e americanissime destinate a rimanere impresse nella memoria collettiva. Era l’Hands Across America, una catena umana di sei milioni di persone che si tenevano per mano ininterrottamente da San Francisco a New York.
Jordan Peele, per i quattro gatti che non ne hanno ancora sentito parlare, è un comico americano ed il regista che ha scritto e diretto quel gioiellino di Get Out. Un’opera prima godibile da tutti, ma anche così curata, particolare, ricca di simboli e di sottotesti impegnati che è stata celebrata immediatamente un po’ ovunque come horror d’autore. Il secondo album è sempre il più difficile nella carriera di un artista (l’ha detto Caparezza, tranquilli, non io) e così Peele per Us cerca di alzare ancora un po’ l’asticella. L’inquadratura di quel mostro a tubo catodico che chi ha meno di dieci anni farà persino fatica a capire che è una televisione ci teletrasporta in un attimo in pieni anni ’80 e alle pubblicità inguardabili con cui cercavano di farci il lavaggio del cervello. Ma Jordan Peele è Jordan Peele, quindi questa non è la strizzata d’occhio per scatenare nello spettatore l’ormai insopportabile effetto nostalgia. Primo perché sullo schermo passa proprio lo spot di Hands Across America, che lì per lì ci dirà magari poco e niente, ma sarà invece un punto nevralgico della vicenda. Secondo perché quando la TV si spegne sullo schermo rimane il pallido riflesso della protagonista da bambina e questa, col senno di poi, è una bellissima simbologia. E infine perché accanto alla televisione, mentre la macchina zooma, si vedono sullo scaffale le videocassette di The Goonies e C.H.U.D., due pellicole superanniottanta che hanno a che fare con il sottoterra e, in particolare la seconda, con una mostruosa umanità alternativa. Insomma, con il vecchio Jordan è una faticaccia continua, perché in ogni scena bisogna stare attentissimi a cosa combina.
La scena di Adelaide quattordicenne nel Luna Park della spiaggia di Santa Cruz e del suo ingresso nella Casa degli specchi è il prologo di Us e anche qui dovremo stare attenti a un po’ di dettagli, perché nella spiegazione finale ci saranno ripresentati col conto. Qui apparentemente non succede quasi nulla, vediamo solo i mille riflessi della bambina, lei che fischietta per scacciare la paura e poi sentiamo qualcuno replicare malamente il suo fischio. Lei si ferma per un attimo, si volta, ma il riflesso alle sue spalle non lo fa. Il suo indescrivibile sguardo di terrore e lo stacco netto sui titoli di testa, con quell’inquadratura enigmatica delle gabbie dei conigli e la bellissima Anthem di Michael Abels in sottofondo, sono un inizio coi fiocchi, un velocissimo e meraviglioso fendente. Sappiamo che con quello stacco repentino ci siamo persi qualcosa, che c’è qualcosa di molto, molto strano dietro, ma in definitiva stiamo pur sempre parlando di una bambina che si è persa nel labirinto di specchi. C’è forse qualcuno a cui non è mai capitato da piccolo? A me è successo e sto ancora piangendo adesso.
Nella primissima parte di Us, con Adelaide ormai cresciuta, sposata con quel mattacchione di Gabe e con in due figli Zora e Jason, si respira questa atmosfera di ambiguità e paranoia. Per Adelaide c’è qualcosa che non va, ci sono dei segnali nell’aria, sopratutto ora che sono in vacanza vicini a quella spiaggia di trent’anni prima. Ma a differenza di Get Out, dove il senso costante di minaccia e di sospetto è l’ingrediente base che tiene appesi praticamente fino al twist finale, qui le carte vengono scoperte prestissimo. Quella dell’arrivo dei doppelgänger, un’intera famiglia di doppelgänger, è una delle scene più riuscite e terrificanti della pellicola. Tutta giocata benissimo, prima per la spiazzante semplicità delle quattro figure ferme ad osservare la casa di notte (“Chi sono quelli? È una famiglia. Avete paura di una famiglia?”) e poi per l’ingresso in casa di queste creature, identiche eppure tremendamente diverse dagli originali. Una diversità che mette i brividi, perché sono gli stessi eppure hanno qualcosa che non torna (“di sbagliato” direbbe King), come se fossero le stesse persone dopo aver passato un’esperienza terribile, impossibile da raccontare. Una scena splendida, quando attorno al divano queste due famiglie si guardano, si studiano, con i visi illuminati solo dal fuoco del caminetto. E poi il capolavoro quando Red, il doppio di Adelaide, inizia a parlare. È un monologo incredibile, intenso, inaspettato, perché Red ha quella voce afona così inquietante, quel viso piangente così insostenibile e perché racconta qualcosa di assurdo, una fiaba nera tristissima e agghiacciante i cui protagonisti sono proprio lì, faccia a faccia.
E qui si comincia ad avere a che fare col sottotesto di Us, perché i doppelgänger sono sì diversi, incomprensibili, spaventosi, arrabbiati e pericolosi, ma da quel racconto si intuisce che non è tutto qua, che non siamo in un monster-movie degli anni ’80, ma ci sono sotto motivazioni più profonde, un sentimento di rivalsa per un’esistenza sfortunata per la quale in qualche modo Adelaide e la sua famiglia vengono considerate responsabili. E poi c’è quel padre, che da buon capofamiglia cerca ottusamente di trovare una soluzione, come se non avesse ascoltato una sola parola e non li vedesse cosi suoi occhi, come se fosse alle prese con dei semplici rapinatori, che infine chiede: “Ma voi cosa siete?” e Red risponde “Siamo Americani”. Una replica che suona strana, ma che già in quel momento ci fa suonare un campanello sul fatto che i doppi rappresentino qualcosa che conosciamo bene.
Fino a questo momento, e parliamo della prima mezz’ora circa, il film viaggia a gonfie vele. In questa prima parte ho pensato seriamente che Us sarebbe stata un’opera anche migliore della precedente. E invece inspiegabilmente (almeno per me) all’inizio della seconda parte il nostro Jordan Peele prende una gran rincorsa per andare a schiantarsi, per fortuna non mortalmente. La prima avvisaglia è un momento home invasion / slasher zoppicante, quando viste le carte in tavola poteva invece essere una sequenza incredibile. Se pensate, non dico a cos’ha fatto Carpenter con una tuta da lavoro e una maschera (perché parliamo di un genio), ma anche solo a pellicole come It follows, dove persone normali riescono a generare terrore assoluto, qui con i doppelgänger in scena il film poteva regalarci un momento veramente memorabile. Non sto dicendo che questa parte di Us doveva necessariamente essere un tripudio action-horror, al contrario, semplicemente sembra che il regista ci abbia provato ma che il risultato sia fiacco. In ogni caso lo schianto non è qui, fino a questo intoppo saremmo ancora dalle parti del piccolo difetto che praticamente tutti i film hanno.
Il problema vero è quando arrivano nella casa degli amici Josh e Kitty. Qui in pochi attimi, il registro cambia. I doppelgänger in questo caso sono tutto fuorché terrificanti e l’atmosfera è lontanissima dalla spaventosa perfezione nella casa di Adelaide. La critica al benessere borghese sfocia in scenette come quella di Ophelia (l’assistente vocale che fa il verso ad Alexa) che anziché chiamare la polizia lancia la canzone “Fuck the police” o come quella dove i doppi diventano burloni, con la finta del doppio di Josh nel dare la mano per poi passarsela sui capelli. Tutto è probabilmente il solito gioco di citazioni e rimandi di Peele (a Clockwork Orange, a Funny Games e a chissà cos’altro) ma il risultato è un cambio di tono dall’horror alla commedia grottesca. E tutta questa parte si conclude con un tuffo nell’abisso, con i dialoghi tra i membri della famiglia di Adelaide (Mamma ho perso l’aereo, le Micromachines e il Facciamo la conta di chi ne ha uccisi di più?) che uno può ascoltare con grandissimo piacere in roba tipo Zombieland, ma non in una pellicola come Us. Non so, forse a qualcuno potrà anche piacere questa parte, del resto a mia nipote di cinque anni piace la pizza con sopra le patatine fritte, ma è un cambio di registro gratuito che fa solo male a una pellicola che stava marciando benissimo con tutto il suo carico di orrore e mistero e che non aveva alcun bisogno di sdrammatizzazione.
Per fortuna Jordan Peele è Jordan Peele. Che si schianta, esce dall’auto in fiamme, si dà un sistemata al farfallino e come se niente fosse mette in scena la grandiosa parte finale di Us. Adelaide che torna nella Casa degli Specchi alla ricerca del figlio è un’atto dovuto verso gli spettatori, che ancora stanno aspettando di sapere cosa sono i doppelgänger e cosa è successo a lei trent’anni prima. La scoperta del passaggio segreto, la discesa con la scala mobile dorata e l’arrivo in questa struttura sotterranea deserta e infestata dai conigli è un viaggio allucinante oltre lo specchio di Alice. L’incontro con Red, oltre a essere di una splendida eleganza formale, riesce a elevarsi dal classico spiegone finale. Un racconto di nuovo bellissimo e tragico al tempo stesso, che finalmente rivela cosa siano queste creature vestite di rosso. Sono i Tethered, gli Incatenati, un progetto degli umani per creare esseri identici agli originali e poterli così controllare. E dopo il fallimento del programma i doppi sono stati abbandonati al loro destino sotto terra. Persone identiche a noi, che vivono una vita di miseria, privazioni e orrori e che subiscono quotidianamente gli effetti delle nostre azioni. Non è nemmeno tanto un sottotesto, identificateli in chi volete, gli Ultimi della Terra, il Sud del Mondo, gli Invisibili, gli Emarginati, sono quelli che sempre più di frequente vengono a bussare alle porte di noi Occidentali benestanti a chiedere un po’ dello stesso benessere.
Le scene in cui vediamo questi esseri che sotto terra, in un ambiente spoglio e innaturale, copiano pari pari le azioni degli esseri umani di sopra è spaventoso ma anche terribilmente straziante. E qui c’è anche una delle scene più belle di tutta la pellicola, quello scontro fra Adelaide e Red che sembra un balletto, sulle note di Pas de Deux, un altro incredibile e indovinatissimo pezzo di Michael Abels. Ma Us ha ancora delle sorprese, perché fuori dalla struttura gli Incatenati nel frattempo si sono organizzati e uno tutto si aspetterebbe, specialmente morte e distruzione, eccetto che vederli tutti quanti in fila a tenersi per mano. Una catena umana di omini rossi che non si sa bene dove inizia e dove finisce, ma che deve essere molto, molto lunga. Un po’ strano no? Un po’ strano che assomigli così tanto all’Hands Across America del 1986. E perché gli Incatenati, in particolare Red che a quanto pare era la più sveglia del gruppo, volendo fare un gesto eclatante hanno scelto proprio questo modo? Io vi dico la verità, il twist nei primi secondi mi ha spiazzato. E ok, è il mestiere del twist spiazzare, ma mi è sembrato eccessivo, oltre Shyamalan, una forzatura dalle parti di quella assurda acrobazia di sceneggiatura che è A perfect gateway. Invece, ripensandoci, lo scambio delle due bambine nel ’86 è la spiegazione di tante, tante cose di Us e riguardando il film scoprirete che in questo senso è pieno di indizi (primo fra tutti il fatto che Red sia l’unico doppelgänger che sa parlare).
Ero partito a scrivere la recensione di Us con tutta l’intenzione di fare l’elenco di tutto ciò comporta questa rivelazione finale, di come i conti tornino e come si possano re-interpretare certi passaggi, ma sono andato troppo lungo e sono certo che in Rete abbondino articoli con simbolismi, interpretazioni, easter egg, citazioni e spiegazioni del twist. Quello che aggiungo qui sono solo un paio di mie considerazioni lampo su cosa può significare lo scambio tra Adelaide e Red. La prima è che gli Incatenati non sono identici agli esseri umani, sono umani e ciò che li ha resi così diversi è solo l’ambiente in cui hanno vissuto. La seconda è che la Casa degli Specchi assomiglia molto alla famosa ruota che gira, perché ci è voluto davvero un attimo per chi era sopra finire sotto e viceversa.