THE HAUNTING OF BLY MANOR – Beetlejuice

THE HAUNTING OF BLY MANOR

“Una storia di fantasmi.
Ripeto, non è la mia storia,
ma è piena di fantasmi di ogni tipo.
E se trovate un bambino inquietante,
fate un altro giro di vite e ditemi:
cosa ne pensate di due?”

“Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi”.
Anche se non conoscete David Foster Wallace e non avete mai letto la sua biografia, questo è un titolo che difficilmente si riesce a scordare. Perché tutti sappiamo esattamente cosa significa. In questa manciata di parole che apparentemente bisticciano, c’è tutta la verità sull’amore umano e più in generale sulla nostra natura. Un amore che per dovere poetico cerchiamo di raffigurare come originato dal cuore, ma che in realtà arriva sempre da quel meccanismo strabiliante e pericolosissimo che è la nostra mente. E la mente non vive di presente, di fatti e di realtà, bensì di memoria e ricordi, di aspettative e illusioni, di storie e ideali. Lo stesso luogo in cui vivono i fantasmi.

Bisogna partire da qui se si vuole apprezzare The Haunting of Bly Manor per la meravigliosa serie che è. Dovremmo avere già ben chiaro che è questo il tema che muove tutta la vicenda, ben prima di arrivare a quel dialogo finale didascalico tra la sposa e la narratrice:

– Mi è piaciuta la storia.
– Mi fa piacere.
– Ma l’hai impostata male, all’inizio.
– Dici?
– Sì. L’hai definita di fantasmi. Ma non lo è.
– Ah, no?
– È una storia d’amore.
– È la stessa cosa.
The haunting of Bly Manor - Recensione film - screenshot 2

Se non siamo preparati a questo, e magari cerchiamo di affrontare l’opera di Mike Flanagan come l’ennesima trasposizione di “Il giro di vite”, allora il rischio di vederla come poco più che brodo allungato è altissima. Se la prima straordinaria stagione The Haunting of Hill House dal romanzo di Shirley Jackson sostanzialmente pescava solo qualche carta, per raccontare poi una storia completamente diversa, in questa seconda The Haunting of Bly Manor siamo dalle parti del “liberamente tratto”, con un impianto e un soggetto inizialmente molto aderenti al romanzo di Henry James, per poi prendere una strada nuova e parlarci di amore, nelle sue tante sfumature possibili.

Nella storia di Hill House, Flanagan aveva diretto ogni singolo episodio e con ottimi risultati. In questa seconda stagione invece, dopo la prima puntata, si alterna un manipolo di registi che chi segue l’horror recente conosce sicuramente almeno un po’: Liam Gavin (A Dark Song), Ben Howling e Yolanda Ramke (Cargo), E.L. Katz (Channel Zero) e Ciarán Foy (Eli). Si dice in giro che quello che fa la differenza in una serie TV non sia il regista, ma lo showrunner, cioè colui che decide tutto quanto (la sceneggiatura, il tono, il cast, il montaggio, le location e via dicendo). Vero o non vero che sia in generale, nel caso di Flanagan la cosa vale di sicuro e all’ennesima potenza, e con queste due perle il titolo di Autore con la A maiuscola non glielo leva nessuno.

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Entrambe le stagioni hanno infatti in comune prima di tutto una scrittura di altissimo livello, l’ingrediente fondamentale quando si vuole raccontare una storia, in particolare se tocca temi così profondamente umani. Non c’è più dubbio che il regista di Salem sia un ottimo conoscitore e utilizzatore della macchina da presa, è persino uno dei miei preferiti, ma per quanto mi riguarda il suo tratto distintivo è invece proprio la sua enorme e raffinata capacità di scrittura (non a caso ha trasposto ottimamente Il gioco di Gerald, romanzo di Stephen King dal quale registi molto più famosi di lui si sono sempre tenuti alla larga).

In The Haunting of Bly Manor, come nel libro di James, la storia è un lunghissimo flashback raccontato da un narratore (in questo caso una narratrice misteriosa, interpretata dalla bravissima Carla Cugino), che io come sempre vi scongiuro di ascoltare in lingua originale perché la sua voce è uno dei grandi protagonisti della serie. Io vado pazzo per i narratori espliciti, lo confesso, ma so anche che sono decisamente in contraddizione con il linguaggio cinematografico e che se usati male possono combinare un gran pasticcio. Qui però la cura per i testi, per la recitazione e per il commento sonoro sono eccellenti e sicuramente una delle cose migliori della serie.

Tutto svanisce. Tutto.
La carne, la pietra, persino le stelle.
Il tempo prende ogni cosa,
è così che va il mondo.
Il passato si affievolisce,
i ricordi svaniscono, e anche lo spirito.
Tutto si arrende al tempo,
anche l’anima.
Si sveglia, cammina
e dimentica ancora di più.
Il suo nome, dimenticato.
Il nome di sua sorella, dimenticato.

Oltre all’espediente classico del narratore, ci sono mille altre cose che Flanagan saccheggia doverosamente dal gotico letterario e cinematografico: c’è l’ambientazione in Inghilterra, la grande casa di epoca vittoriana, ci sono il lago e la cappella, le figure adulte attorno ai bambini, le tragedie passate e presenti e le immancabili leggende locali.

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The Haunting of Bly Manor ha in comune con la stagione precedente un altro tema  carissimo a Flanagan, e cioè quello della famiglia, argomento che alla luce dei fatti gli riesce dannatamente bene. Da una parte abbiamo i Crain di Hill House, una famiglia in senso stretto e proprio loro in fondo l’oggetto della maledizione, mentre dall’altra abbiamo Bly Manor che vede passare sotto al proprio tetto persone di origine molto diversa, ma accomunati dall’essere  in qualche modo “orfani” di qualcosa. Flora e Miles, i due bambini, i cui genitori sono morti in un incidente, l’istitutrice Dani, in fuga dagli Stati Uniti e da tutti i precedenti legami, la giardiniera Jamie, dalla scorza dura come il passato che ha dovuto affrontare, il cuoco Owen, con una madre sprofondata nella demenza senile, la Governante Mrs. Grose, a cui sono rimasti solo il proprio lavoro e i proprio gesti quotidiani, e lo zio Henry, ormai preda dei suoi demoni e del ricordo del male che ha commesso. Personaggi disperatamente soli, ma dalle loro solitudini nasce una bellissima e particolarissima nuova famiglia, l’unica che possono avere i due bambini. E che un giorno, anche se forse solo inconsciamente, si troveranno a ringraziare.

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È proprio nel dipingere i suoi personaggi che The Haunting of Bly Manor, come la serie precedente, dà il suo meglio e riesce a fare breccia nel cuore. Con un casting per nulla scontato, ogni personaggio viene raccontato alla perfezione, a volte da un’intera puntata a lui dedicata, a volte mettendogli in bocca un dialogo pazzesco, a volte semplicemente da quelle inquadrature agli sguardi o ai riflessi che sono l’ossessione di Flanagan. Il discorso davanti al Fiore di Luna della giardiniera Jamie, il personaggio apparentemente più stereotipato e forse inizialmente persino più antipatico di tutti, è uno di quei momenti che gli sceneggiatori di tutto il mondo dovrebbero segnarsi sui propri taccuini. Una scelta di script che poteva essere disastrosa (quella di far parlare anziché di mostrare), che viene spesso utilizzata per mancanza di budget o di idee, e che qui invece è una scena magnifica, trascinante, sicuramente uno dei momenti più alti della serie.

Sai, in una miniera…
Ci penso sempre, ora che sono grande…
Lì non ci sono piante. Non c’è vita.
Quegli uomini… Li mandiamo laggiù,
nell’oscurità, a estrarre roba morta.
Cumuli e cumuli di cose morte,
così vecchie e senza vita da bruciare,
e quella era la vita di mio padre.
Mentre mia madre faceva di tutto per sentirsi viva.
Tutta quella morte, quella morte scura e polverosa,
è sulla sua faccia, sulle mani, nei polmoni,
quando torna in superficie.
Non una foglia, non un ramo, non un fiore.
Quando, finalmente, esce da quella tomba,
quando torna nel mondo dei vivi…
ridono di lui.
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Ma si potrebbe prendere ogni personaggio, anche quelli minori, e spendere fiumi di parole sull’abilità incredibile di Flanagan di farci entrare nella loro testa e volergli bene nel giro di pochi minuti. E attraverso di loro The Haunting of Bly Manor ci racconta le diverse possibili angolazioni dell’amore: c’è l’amore fraterno di Flora e Miles, quello che finalmente riesce a farsi strada tra Dani e Jamie, quello impossibile tra Mrs. Grose e il cuoco Owen, l’amore distruttivo tra Peter Quint e Miss Jessel, quello traditore dello zio Henry e infine l’amore delle sorelle Viola e Perdita, che imputridisce diventando una terribile maledizione.

Inutile dire quanto sono bravi i piccoli Amelie Bea Smith e Benjamin Evan Ainsworth, nei ruoli di Flora e Miles. Victoria Pedretti (la sorella minore Nell Crane nella serie precedente, il personaggio sicuramente più commovente), è poi un’attrice straordinaria, perfettamente in parte, che riesce a mettere in scena una ragazza in costante e disperato equilibrio sul baratro psicologico. Anche quando ancora non sappiamo nulla del suo passato, anche quando il regista usa solo il suo gioco bellissimo di specchi e riflessi, di Dani riusciamo già a capire che qualcosa dentro di lei si è rotto, forse irreparabilmente, e per quanto lei si sforzi di rimanere in piedi il precipizio che la chiama è troppo profondo.

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È proprio col personaggio di Dani che la serie comincia a divergere da “Il giro di vite”. Nel romanzo la narrazione della vicenda era farina del sacco della stessa istitutrice, che quindi risultava un narratore inattendibile. Questo consentiva di dare diverse possibili spiegazioni a quanto accadeva nella casa, non ultima quella di una persona affetta da disturbi mentali e allucinazioni. In The Haunting of Bly Manor l’inattendibilità di Dani è solo una strizzata d’occhio iniziale, grazie alle apparizioni del suo ex-fidanzato e a quei fantastici occhiali illuminati, ma piano piano risulta chiaro che quelle dell’istitutrice non sono visioni frutto della sua mente fragile e che Bly Manor brulica davvero di vita e di morte.

E qui veniamo a quello che molti considereranno il nodo cruciale della vicenda: i fantasmi. Se cercate la paura, il raccapriccio, i jump-scare, insomma l’”horror luna-park” (prendendo a prestito il copyright di Lucia de Il giorno degli zombi), The Haunting of Bly Manor non è il posto per voi. L’unica vera incursione nell’horror in senso stretto è la Donna del Lago, la figura che compare ritmicamente nel corso della storia portando con sé tutto il suo carico di terrore. Un personaggio molto sfumato nelle prime fasi e poi via via sempre più presente e definito, che potrebbe sembrare un espediente per accontentare chi da una storia di fantasmi si aspetta di essere spaventato (e sicuramente in parte è la sua funzione, perché le sue apparizioni sono quasi sempre da salto sulla sedia), ma che in realtà è la chiave per spiegare e dare un senso a tutta la vicenda.

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Un personaggio tragico e bellissimo, senza più un volto e senza nemmeno più una vera volontà, la cui origine ci viene raccontata in quella puntata otto che è vicinissima al capolavoro. Un racconto nel racconto, la storia gotica delle due sorelle Viola e Perdita che potrebbe essere uscito un secolo fa dalla penna di Edgar Allan Poe. Anche qui la scrittura di Flanagan è eccellente, in meno di un’ora in bianco e nero ci viene raccontata un’intera esistenza e quella successiva non-esistenza negli abissi del tempo in cui prende forma la Donna del Lago. Una maledizione che si estende a chiunque passi dal Bly Manor e che è frutto dell’ostinazione con cui Viola rifiutava di scomparire nelle oscurità dell’oblìo (“Dica al suo Dio che io non me ne andrò!”). Un racconto perfetto e curatissimo, senza mai una sbavatura, senza mai un inciampo, senza mai una di quelle leggerezza che spesso finiscono nelle serie TV.

E, in quel momento, la parola serpeggiò
lungo la sua spalla e il suo gomito,
finché non prese vita nella sua mano.
E la parola era… “pietà”.
Ma quella parola era una bugia.
Perché nella sua mente
e nel suo cuore non c’era pietà
a guidare la sua mano.
C’erano tutti gli schiaffi,
gli insulti e i giorni passati.
Ogni momento dopo l’estrema unzione.
Era stata una parola diversa
a infettarla per tutto quel tempo.
E, alla fine, si rese conto
che la parola non era “pietà”.
No, la parola era sempre stata… “basta”.
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Come abbiamo già visto in tanti altri racconti moderni sui fantasmi (uno su tutti I am the pretty thing that lives in the house), i fantasmi di Bly Manor sono esseri imprigionati nei propri ricordi, obbligati a ripetere e ripetere e ripetere alcuni istanti e sensazioni della propria vita. La maledizione della Donna del Lago è qualcosa di ancor più struggente, perché in questo inferno sospeso ogni spettro è destinato anche a vedersi sfuggire le proprie fattezze, a perdere la propria identità, e a perpetuare la propria esistenza in modo meccanico, senza più una vera memoria e una vera volontà. Terrificante e poetico, come il momento in cui la Donna del Lago rapisce il bambino trovato sul letto e lo porta con sé sott’acqua, senza un reale motivo, senza cattiveria, solo perché lei un tempo era alla ricerca della figlia e il gesto è un semplice eco della sua volontà.

Questo è ciò che muove la figura sinistra di Peter Quint nell’approfittare di Flora e Miles (e a continuare il plagio di Miss Jessel), il desiderio disperato di sfuggire a questo destino atroce. Qui vedo già piovere critiche triviali per l’espediente un po’ facilotto di dotare i fantasmi della capacità di entrare nel corpo dei bambini. Da un certo punto di vista è vero, è una soluzione che un po’ stride rispetto alla raffinatezza della serie e fa un po’ l’effetto Frikey Friday, ma vanno dette due cose: la prima è che la possessione dei corpi, nell’economia complessiva della storia, non ha davvero tutto questo gran peso; la seconda e più importante è  che, nel momento in cui Dani recita la formula “It’s you, it’s me, it’s us” e capiamo che non è diretto a Flora ma alla Donna del Lago, qualsiasi sopracciglio alzato torna automaticamente al suo posto. Il sacrificio di Dani, la cui portata diventerà più chiara nella puntata successiva, è una scena così tragicamente bella che secondo me fa superare qualsiasi perplessità.

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Come in ogni storia di fantasmi che si rispetti, The Haunting of Bly Manor ha anche il suo immancabile epilogo. E qui abbiamo l’ennesimo esempio di ottima scrittura, perché tutto avrebbe potuto risolversi nella casa, con qualche colpo di scena ad effetto, e invece Flanagan scrive una un po’ inaspettata nona puntata. Un episodio in cui ci porta a spasso per le vite dei protagonisti alla ricerca della normalità, in un’atmosfera che sa tanto di lieto fine, ma in cui poi ci abbandona senza pietà a un tragico destino, come quello che attende Dani sulle rive del lago. Ora ve lo devo confessare, io non guardo i miei album fotografici da secoli per non scoppiare in un interminabile pianto incontrollato, quindi con me si vince facile. Ma sul finale di The Haunting of Bly Manor, quando viene svelata l’identità della narratrice e degli invitati al matrimonio, di fronte a quella porta lasciata aperta e quella mano sulla spalla, non credo di essere l’unico che si è lasciato (e si lascerà sempre) sfuggire più di una lacrima.

Questa recensione è zeppa di citazioni dei dialoghi, come mai non mi era capitato prima, perché mi è sembrato l’unico modo per rendere giustizia a una serie così ben scritta. The Haunting of Bly Manor è un enorme libro, in cui la narratrice ci accompagna dolcemente a sfogliarne le grandi pagine illustrate e piene di magnifiche parole, musiche e personaggi. Un libro emozionante, che ci ha portato riflessioni, lacrime e qualche brivido, e che una volta finito viene voglia di ricominciare a leggere daccapo.

Un’altra ottima stagione della meravigliosa serie di Mike Flanagan, stavolta ispirata a “Giro di Vite” e dove “ogni storia d’amore è una storia di fantasmi”

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