C’è una parte di me che continua a pensare ai film francesi come a pellicole lente, vagamente patinate, dai toni sempre troppo poetici, con interpretazioni sofferte e dialoghi profondi ma anche un po’ fastidiosi. E questo nonostante la consapevolezza che le generalizzazioni valgono sempre come il due di picche e tutte le evidenze contrarie degli ultimi vent’anni di cinema francese, a partire dagli horror. Anzi, vista la mia lacunosa conoscenza del cinema d’Oltralpe, è probabile che le evidenze contrarie si estendano tranquillamente a tutta la cinematografia francese a partire da Meliès.
Comunque stiano le cose, la mia idea per quanto sbagliatissima è sempre lì, piccola ma tenace, attaccata al mio cervello come un cane al suo osso. Pazienza, un giorno se ne andrà, per ora mi rende comunque il grande servizio di abbassare le aspettative e quindi, di fronte a un ottimo film francese come Les Misérables, non posso che sentirmi doppiamente soddisfatto. Il film è basato sull’omonimo cortometraggio del 2017 del regista Ladj Ly e prende il titolo dal romanzo “I miserabili” non perché ne sia una trasposizione cinematografica di qualche tipo, ma perché il tema centrale è in fondo lo stesso del capolavoro di Victor Hugo: il racconto di quella classe che vive ai margini della società, in un profondo disagio sociale ed economico, spesso dimenticata dalle istituzioni e talvolta persino vittima di chi dovrebbe invece garantire l’ordine e la sicurezza.
L’apertura del film è così semplice, e tuttavia così riuscita, che io credo sia uno dei momenti fondamentali di Les Misérables. L’incipit ancora sui titoli di testa, che ci presenta Issa, il bambino che sarà il fulcro di tutta la triste vicenda, e che accende segretamente la miccia di una bomba emotiva che esploderà sul finale della vicenda. Qui c’è la breve e splendida prima rappresentazione degli abitanti della banlieu, una moltitudine umana multietnica, unita ed eccitata per la vittoria della nazionale di calcio francese. Un momento a cui tutti dovremmo ispirarci per immaginare una società degna di questo nome, in cui il collante tra le persone è qualcosa che va ben ad di là delle leggi, della politica o dell’economia, e la cui raffigurazione culmina in quell’immagine da dipinto napoleonico della folla sotto l’Arco di Trionfo di Parigi.
La realtà di questo mondo parallelo delle periferie parigine è ovviamente molto più vasta e complicata di come appaia in quei primi fotogrammi. Attraverso gli occhi del brigadiere Stéphane, al suo primo giorno di pattuglia con la BAC (Brigade Anti Criminalité), l’iniziale ritratto sociale dell’incipit sfuma progressivamente in qualcosa di molto più complesso e difficile da accettare. Un universo sotterraneo in cui tutti quanti, per motivi diversi, rientrano nel concetto di “miserabili”: le persone della banlieu, arresi a una situazione più grande di loro, i criminali locali, carnefici della loro stessa gente, le forze dell’ordine, incapaci di proteggere e servire, e i bambini, forse gli unici ancora davvero innocenti, che da tutto questo traggono inevitabilmente insegnamenti sbagliati e diventano la garanzia di un futuro ancora più nero.
Les Misérables da qualche parte avrà scritto sicuramente thriller (forse persino su questo blog) e sarebbe un po’ improprio affermare che non lo è. Quando spunta il drone durante il fattaccio della Flash Ball, e nei minuti successivi in cui i poliziotti si lanciano alla ricerca del video registrato, la regia è puro thriller, commento sonoro compreso. E anche la recluta al suo primo giro di pattuglia per le strade della periferia, con colleghi navigati ma dalla morale non esattamente limpida, ricorda molto il bellissimo thriller-poliziesco Training Day (anche se la pellicola con Denzel Washington prendeva ovviamente una piega molto diversa). Ma il plot thriller in Les Misérables non è il punto essenziale, è solo l’escamotage perfetto per condurci facilmente nell’ecosistema malato delle periferie, il suo modo per agganciarci e prestare attenzione a un racconto per il quale altrimenti avremmo avuto forse molto meno interesse. Personalmente io questa credo sia la strada giusta. Il cinema ha infinite possibilità di narrazione e questo tipo di contaminazione è il modo migliore per parlare facilmente, anche al grande pubblico, di temi distanti o difficili.
E quello di Les Misérables è in primis un racconto di personaggi. Tanti, belli, piccoli, grandi, ma sempre interessanti e ben caratterizzati. Chris, il poliziotto disilluso e dai modi brutali, Gwada, il compagno apparentemente più saggio ed equilibrato, Il Sindaco, il soprannome del mafioso e trafficante di droga locale, Salah, l’ex-galeotto ora redentosi come kebabbaro e Imam della comunità, Zorro, l’orrendo padrone del Circo Zeffirelli, Buzz, il bambino col drone, Gufo, il rapper, e molti, moltissimi altri. Ognuno con la sua piccola storia di miseria umana da raccontare.
In questo contesto fatto criminalità, abusi di potere, ingiustizia, odio, incomprensioni culturali e tensione sociale, Les Misérables sceglie in modo vincente di tenere la violenza quasi del tutto fuori dalle scene. Solo nelle ultime battute delle pellicola, quelle cruciali dell’imboscata ai poliziotti, si arriva a vedere la violenza in campo, ma è sempre estremamente misurata e senza praticamente spargimento di sangue. Se il regista ha scelto questa strada, io credo sia stato per dare il giusto risalto a due cose. La prima è la violenza assurda e inaccettabile su Issa, di cui non vediamo praticamente nulla se non i suoi effetti postumi, e cioè il suo volto tumefatto e sfigurato. Se riesce a essere un’immagine terribilmente forte, iconica quasi da film horror, credo sia proprio perché è praticamente la sola immagine disturbante di tutta la pellicola.
La seconda è quella crudeltà strisciante che altrimenti sarebbe passata inosservata, quella meno impressionante ma più inquadrata nella quotidianità delle persone. Quella dove una pattuglia si può fermare immotivatamente a perquisire una giovane ragazza alla fermata dell’autobus (è la scena che in assoluto mi ha dato più fastidio, nonostante la brutalità sia quasi solo verbale) oppure dove il padrone di un circo può terrorizzare un bambino nella gabbia del leone ammaestrato (anche questa straordinaria dal punto di vista cinematografico, ma davvero terrificante umanamente). E con quest’ultima, tra “i miserabili” ci finiscono pure le povere e incolpevoli bestie.
La paura vera che viene da Les Misérables, quella che ci dovrebbe davvero turbare, non è quindi tanto l’orrore estemporaneo e facilmente disinnescabile delle immagini, ma quella che nasce dalla domanda che ci si fa inevitabilmente alla fine della vicenda: “Come possono, gli esseri umani, arrivare a questo punto?”. Come può, chi dovrebbe proteggere le persone, arrivare a colpire un bambino e decidere di non chiamare l’ambulanza? Come possono degli adulti arrivare a usare le sofferenze di un figlio della propria comunità? Come può, chi a sua volta conosce benissimo l’amore di una famiglia, comportarsi in modo così ignobile verso gli altri? E come possono dei ragazzi, o addirittura dei bambini, arrivare a una così feroce forma di violenza?
La chiusura del film sulla parole di Victor Hugo è bellissima, l’unica possibile. Issa su quelle scale non farà alcuna scelta, perché quello non è il momento in cui si prendono le decisioni, è solo il momento in cui si stanno raccogliendo i frutti.