Non giriamoci tanto attorno, se non amate Brit Marling avete qualcosa che non va. Poi fate voi. Oltre a essere bella, bravissima, intelligente, bella (l’ho già detto?) è anche un’attrice con un’idea molto precisa di cinema. Sound of my voice, Another Earth, I Origins e anche questa serie televisiva The OA sono tutte opere in cui Brit ha partecipato alla scrittura della sceneggiatura e in cui è evidente la sua personalissima firma. Sono opere da cui traspare una visione trascendente del mondo, dell’esistenza e della sua fine e rappresentano quasi a un genere a sé stante, una fantascienza sottovoce e fortemente riflessiva, dove l’azione e gli effetti speciali sono sostituiti dal mistero e dalla ricerca spirituale. Gli amici registi Mike Cahill e Zal Batmanglij sono i suoi eterni compagni di viaggio in queste opere indie, anche in fase di scrittura, e la cosa contribuisce a dare un taglio sempre molto autoriale al loro lavoro. Tutti gli episodi di The OA sono diretti proprio da Zal Batmanglij e scritti in collaborazione con la Marling, il che dà a questa opera anche una maggior unitarietà e originalità, rendendola è più simile a un lungo film di otto ore che non a una serie.

È possibile che sia così solo per me, che sia una mia esagerazione perché queste pellicole riescono a toccare perfettamente alcune mie corde, ma Brit Marling porta con sé un’aura di trascendenza che rende questo tipo di spettacolo qualcosa di più di una semplice esperienza cinematografica. Chiamarla fantascienza è solo un modo comodo e pigro per categorizzarla, anche perché c’è poco di veramente scientifico in questi film. In qualche caso ci sono anzi più che altro bugie spacciate per verità scientifiche (come in I Origins o Another Earth) ma questo al cinema non è necessariamente un difetto. Raccontare storie di questo tipo significa spesso utilizzare artifici come punto di partenza per riflettere su questioni che la scienza non ha (ancora) risolto. Come cosa significhi esistere, le nostre possibilità di scelta durante l’esistenza e cosa capiti alla nostra coscienza quando il corpo muore.

Quella di The OA è una scrittura raffinatissima e intelligente. Ci sono intere puntate che sono un piccolo colpo di scena dopo l’altro, senza quei trucchetti fatti per stupire a tutti i costi, senza quel genere di cose che sono ormai diventate un must in un certo tipo di serie televisive e che generalmente piacciono poco agli amanti del cinema. Questa serie semplicemente racconta una storia che per quanto vi sforziate di prevederla, prenderà sempre una strada un po’ diversa e lascerà al pubblico più sensibile qualche brivido sulla pelle. The OA è uno di quei quadri pieni di dettagli che visti da lontano potrebbero passare per una cosa qualunque, una scena già vista e rivista, ma che quando vi avvicinate vi accorgete della sua bellezza nascosta, di quanto e come è diverso da tutti gli altri. Perché la storia raccontata ha uno scheletro di base che, per chi ha divorato il cinema degli anni ’80, ormai è classica: il ritorno di Prairie a casa, la sua strana calma e i suoi “poteri”, l’improbabile gruppo di ragazzi che la aiuta, l’addestramento per arrivare preparati al loro destino. Invece è nei dettagli che c’è la sostanziale differenza, perché quando la vedrete non avrete mai la sensazione di star guardando qualcosa di già visto e di derivativo, anzi, più di una volta vi troverete spiazzati a pensare “E ora???”. E tutto questo, lo ripeto, senza grandi fuochi artificiali, sempre con quel bellissimo sottotono che riesce a emozionare enormemente più di tanti escamotage cinematografici arcinoti.

Non c’è bisogno che vi dica quanto Brit Marling sia anche in questo caso grandiosa, qui nella parte di una ragazza un po’ più giovane e della quale riesce a rendere credibile ogni minima cosa, dalla sua ingenuità nel fuggire da casa, alla sua vita in prigionia, dall’ambiguità del suo atteggiamento al ritorno nella cittadina, all’elaborazione del suo trauma con lo psicologo del FBI, fino a quella sua così quieta distanza dai genitori adottivi. E anche questi ultimi sono due figure splendide e dolcissime, con due attori bravissimi (Scott Wilson e Alice Krige) che tra cinema e TV sono in giro da così tanti anni che diventa naturale vederli come figure paterne. E anche i “perdenti” della situazione, lo scalcagnato gruppo di personaggi che seguono Prairie con sempre maggior convinzione, sono il segnale della diversità di questa serie. Figure che in altri contesti più tradizionali (e probabilmente anche più spettacolari) sarebbero ricaduti nei soliti stereotipo del bullo, del diverso o del bravo ragazzo, qui sono personaggi molto più tridimensionali e terreni, con aspetto e comportamenti molto più riconoscibili e interessanti.

The OA è un prodotto che mescola diversi generi, ma è prima di tutto una pellicola drammatica, che si appoggia al soliti presupposti fantascientifici e mistici che sono la firma della Brit Marling più indie (che qui hanno ancora più spazio rispetto ai lavori precedenti) e che stavolta sfocia anche nei territori del thriller e del giallo. La seconda puntata ha una delle scene più memorabili della serie in questo senso, quella del “rapimento” di Prairie, con quella telecamera sempre così ravvicinata alla sua nuca e al suo viso, quel continuo nascondere cosa le sta attorno, proprio come è nascosto alla sua vista. I dettagli del pavimento umido, il rumore dell’acqua che scorre e infine l’inquadratura del suo viso dietro alle pareti di vetro, lo sguardo cieco pieno di incredulità e di consapevolezza del suo errore. E un altro piccolo gioiello di queste atmosfere è il momento in cui lei prepara il pranzo al suo carceriere, la sua attenzione nel non farsi scoprire ad avvelenare il cibo e il momento in cui anche lei si siede a tavola ed è costretta a mangiare con lui. Una scena perfetta, girata con un grande senso dei tempi e un’ottima capacità di creare la suspense.

The OA è una serie che probabilmente molti in futuro ricorderanno per un dettaglio che, tra i tanti, contribuisce a renderla interessante e particolarissima e cioè i cinque movimenti di cui Prairie è alla ricerca. Nella mia esperienza cinematografica non ricordo nulla di simile, perlomeno non raccontato in questo modo. Una sorta di linguaggio appreso nelle esperienze NDE che può essere parlato attraverso dei movimenti collettivi che diventano una danza dai poteri magici. Questi momenti sono tutto sommato relativamente pochi nell’arco della stagione, ma sono quel nucleo mistico fondante attorno a cui ruota tutto. E la loro rappresentazione è sempre più magnifica, con coreografie eccellenti e un commento sonoro che a qualcuno (a me in primis) farà venire la pelle d’oca, in particolare nell’ultima puntata. Il finale, io ve lo dico e poi dimenticatevene immediatamente, è un finale aperto, di quelli che lasciano irrisolti parte degli interrogativi. Quel tipo di finale che io personalmente detesto quando ha come unico obiettivo costringere il pubblico a pipparsi la stagione successiva. Sul finale di The OA io questa malizia non l’ho avvertita (ciò non toglie che Netflix abbia appena pubblicato la Parte II), è un finale perfetto e ambiguo, che scarica a terra tutto quanto ci è stato raccontato e ci lascia col cuore gonfio, il magone e qualche bellissimo dubbio.

Qualche difetto The OA ce l’ha pure. La quinta puntata nella sua parte cubana è un po’ un pastrocchio (fortunatamente si risolleva sul finale), ci sono alcune rare scene un po’ poco riuscite (una su tutte quella in cui la professoressa offre i soldi per liberare il ragazzo da non si sa bene chi), le scene pre-morte che qualcuno potrebbe trovare estremamente affascinanti e qualcuno altro ugualmente sciocche e new age. Ma va bene così. Qualche piccolo errore che non scalfisce minimamente la bellezza di un lavoro poetico e disarmante, ben pensato, ben scritto, ben recitato e ben diretto.
Ecco, non mi illudo che questo mio lunghissimo pistolotto possa farvi amare Brit Marling alla follia, per quello bastano e avanzano i suoi film. E questa intervista di offCamera.