In gioventù di motivi per essere felici c’è solo l’imbarazzo della scelta. Uno tra i tanti per me è stato avere avuto coetanei che leggevano Stephen King e guardavano film horror in modo compulsivo. Mi accontento di poco, vero? Sì, forse sì, ma è comunque tantissimo rispetto all’avere i coetanei di oggi, che leggono i quotidiani, si riproducono come gremlins messi sotto una doccia e guardano la fiction italiana sul divano in stato neurovegetativo. In quel periodo magico, era un fatto universalmente accettato (nell’universo di noi bambini nerd, che ancora non sapevamo di esserlo) che i film tratti da King facessero schifo. Era accettato ed era il ritornello con il quale uscivamo dal cinema o restituivamo la cassetta o ci incontravamo il giorno dopo a scuola, perché porca miseria, dai, non hanno messo quella scena, mancava un personaggio, ma il finale non era così, ma perché cavolo King faceva il prete? Ma poi al cinema o in videoteca o a guardare Italia 1 ci si andava lo stesso, perché si sa, leggere è ok, ma un film è il massimo (la gioventù è anche un periodo in cui si pensano cazzate in libertà).
Questa faccenda dei film di King schifosi è andata avanti per un bel po’ ed era una filosofia di pensiero, come capite, un po’ zoppicante. Avevamo indubbiamente le nostre ragioni, forse vi ci ritrovate anche voi se avete visto roba come Running Man, Il tagliaerbe o Brivido, ma ovviamente sbagliavamo come una previsione del tempo degli anni ‘80. Facevamo sostanzialmente due errori: il primo era la banale (ma non per noi) considerazione che un pessimo adattamento non è un pessimo film. Shining di Kubrick è l’esempio lampante di come una trasposizione indecente possa essere un ottimo film (il piccolo fan di King che vive dentro di me sta borbottando: “Ecco sì, bravo, bastava dargli un titolo diverso che ci evitavamo anni di diatribe”). Il secondo, meno banale per un’epoca in cui internet non esisteva, è che non avevamo la possibilità di conoscere tutti i film, tanto meno di guardarli. Ovvio, no? Non avevamo ancora visto Stand by me né Le ali della libertà, che sono bastati questi due a far crollare istantaneamente la nostra corrente di pensiero da quattro soldi, come tanti altri ottimi film come La Zona Morta o Misery, che ci eravamo evidentemente persi o non avevamo capito. Oggi da più parti si dice che questo è il periodo d’oro per i film tratti da opere del Re, e forse è vero, ma giusto per una questione di frequenza con la quale vengono sfornate opere decenti e rispettose dei testi kinghiani, perché se ci guardiamo indietro le buone produzioni non mancano.
Insomma, tutta questa lunga premessa sta a significare che è impossibile guardare e quindi parlare di Castle Rock in modo obiettivo, se siete cresciuti a pane e King. Impossibile se la prigione è quella di Shawshank, se ogni tanto sbuca un ritaglio di giornale che racconta di un cane di nome Cujo o di un corpo ritrovato vicino ai binari, se uno dei protagonisti è l’ex sceriffo Alan Pangborn e se gli attori principali sono Sissy Spacek e Bill Skarsgård, che hanno il marchio kinghiano per due pellicole fondamentali come Carrie e IT. Se avete visto Ready Player One o la serie Stranger Things capite bene come in questi casi sia molto, molto difficile fare una distinzione tra il piacere di vedere celebrato ciò a cui siamo affezionati e quello di assistere a una buona opera. Riuscireste davvero a mangiare un gelato Piedone senza provare anche il sottile piacere di ricordare quando costava duecento lire? Di citazioni Castle Rock ne è pieno zeppo, tanto che potrebbe essere rivisto solo per andarne a caccia (se volete scoprirne alcune, qui trovate un bell’articolo), ma non è una serie il cui ingrediente fondamentale sono citazionismo e nostalgia. E per fortuna. Quanti altri film pensate di poter apprezzare dove una banda di bambini nerd combatte mostri girando in bicicletta? Questo tipo di operazione per quanto mi riguarda ha le gambe cortissime. La scelta di farlo per IT da Andy Muschietti è stata particolarmente azzeccata (grazie anche a uno shift temporale in avanti per attualizzarla), tutto sommato dignitosa per Stranger Things (anche se molto più ruffiana), ma fatta qui sarebbe stata una dichiarazione di guerra verso chi quel periodo lo ha vissuto veramente.
La storia di Castle Rock è distribuita in due timeline separate di trent’anni, finendo inevitabilmente per ricordare IT, ma con una narrazione non lineare che mischia continuamente le carte procedendo per continui flashback. E qui, anziché buffi secchioni presi di mira da bulli o entità sovrannaturali malvagie, i pochi bambini che troviamo sono stranamente silenziosi, indecifrabili e nascondono segreti a volte più grandi di loro. Come per tante altre serie basate sui suoi lavori, qui Stephen King è uno dei produttori esecutivi (assieme a J.J. Abrams), ma la sceneggiatura non è un adattamento in senso stretto. Non si basa su alcun romanzo di King in particolare, ma piuttosto su tutti quanti in generale, in particolare quelli ambientati nel Maine, nella zona immaginaria vicino a Portland in cui King ha piazzato Derry, Jerusalem’s Lot e Castle Rock.
Il soggetto di Castle Rock è maledettamente buono, non al pari dei grandi capolavori kinghiani, ma senz’altro di quelli che colpiscono fin da subito. E la presenza di Bill Skarsgård nei panni del prigioniero misterioso di Shawshank è determinante. Una figura che sarà ambigua dall’inizio alla fine, con gli occhi in costante affanno tra lo spaventato e il minaccioso, e che riempie di tensione ogni scena in cui appare. Il prigioniero, le cui uniche parole quando viene liberato sono “Henry Deaver”, l’avvocato originario della città che sarà chiamato a occuparsi del suo caso, parole apparentemente chiare, un grido d’aiuto, ma che nel corso della storia diventeranno invece sempre più enigmatiche. Oltre a Skarsgård, di bravi attori e ottime interpretazioni Castle Rock ne è pieno tanto quanto è infarcito di riferimenti, a partire da Sissy Spacek, la madre del protagonista affetta da demenza senile, Scott Glenn, nei panni dell’ex sceriffo Alan Pangborn, invecchiato e stropicciato all’americana come il miglior Clint Eastwood e Noel Fisher, il secondino che prende le distanze dal male quotidiano che si consuma nella prigione. Paradossalmente è proprio il personaggio dell’avvocato Henry Deaver (André Holland), a non essere particolarmente brillante. Non saprei, è sicuramente una figura interessante con il suo passato e i suoi paralleli chiarissimi con il prigioniero, e forse la mancanza di physique du role del protagonista è addirittura una scelta voluta, ma c’è qualcosa di veramente poco affascinante nel suo personaggio che potrebbe essere percepito da molti come un punto debole.
La sostanza di cui è intrisa Castle Rock è il mistero più che l’orrore. C’è anche questo, non abbiate paura, in qualche puntata è addirittura in prima fila (l’episodio “Past Perfect”), ma il più delle volte è un orrore strisciante, fisiologico, qualcosa di connaturato al luogo. Quel “qualcosa di davvero sbagliato” che è uno dei capisaldi di King e che nella sua letteratura viene in verità rappresentato più da Derry che da Castle Rock. Un orrore fatto di follia, di violenza, di manifestazioni del Male con la m maiuscola nella normalità delle persone per mano di loro stesse. Un Male che viene in molti casi tenuto apparentemente lontano dallo spettatore, perché lasciato fuori dallo schermo e raccontato solo dagli occhi terrificanti del prigioniero di Shawshank oppure sottolineato solo da una musica che stride con la scena brutale che avete davanti (la strage in prigione, sulle musiche di Crying di Roy Orbison). Musiche che più di una volta, a partire dal tema e dai tanti commenti sonori al pianoforte, sono poco più che sussurrate e alimentano il mistero che avvolge l’intera storia.
Castle Rock è già stata rappresentata in tanti altri film, ma qui forse è la prima volta in cui c’è grande attenzione per il luogo in quanto tale, e non solo per la storia che vi si svolge. Sono tantissime, e in qualche caso bellissime le riprese della cittadina dall’alto, spesso notturne, quasi a volervi dire: “Guardatela bene, sembra un luogo come tanti altri vero? Ma fate attenzione, non fatevi ingannare, perché qualcosa di veramente brutto serpeggia là sotto”.
Cosa c’è di davvero kinghiano nelle opere di King? Perché se avete letto La redenzione di Shawshank e Ricordo di un’estate li portate nel cuore a distanza di così tanti anni? Perché vi affezionate così tanto a un topo che scorrazza nel Braccio della morte ne Il miglio verde? Perché lo Shining di Kubrick, in tutta la sua perfezione, non restituisce la magia del romanzo?
Perché il tratto distintivo di King, ciò che lo rende così amato e, nei suoi lavori migliori, memorabile, è l’umanità dei personaggi e delle storie che mette in scena. Storie sempre ai limiti della realtà, siamo d’accordo, ma dove il punto centrale è proprio l’essere umano. L’orrore è l’assenza di questa umanità, la sua metà oscura. I protagonisti delle sue storie siamo sempre e comunque noi, noi che corriamo disperatamente sul ponte inseguiti dal treno, noi che soprannominiamo un topolino Mr. Jingles, noi che arriviamo sulla spiaggia di Zihuatanejo a raggiungere un vecchio amico, noi che siamo deboli e sopraffatti dalle presenze malvagie di un albergo e nonostante tutto riusciamo a sacrificarci per salvare nostro figlio. E noi, che alla fine, alziamo il lenzuolo e vediamo il nostro cadavere.
Castle Rock in questo è veramente kinghiana, anche molto di più di tanti film che hanno trascurato questo aspetto fondamentale della sua letteratura. Ai personaggi in un modo o nell’altro ci affezioniamo, in loro ci rispecchiamo o rivediamo qualcuno di caro. Le loro storie ci interessano e vogliamo che tutto finisca senza che nessuno si faccia male. Anche una storia come quella tra Alan Pangborn e Ruth Deaver, che se gestita distrattamente sarebbe potuta diventare un polpettone sentimentale disastroso, è invece uno dei temi più belli della serie. La splendida settima puntata “The queen”, in cui Ruth è sballottata continuamente tra passato e presente, in un gioco di ambiguità tra ciò che è reale e ciò è causato dalla sua malattia, è così piena di dettagli, così attenta al lato umano, con un finale così curato da sembrare un dipinto, che è certamente l’episodio migliore dei dieci. E la stessa cosa vale per il finale della serie che è di una tristezza disarmante grazie a quanto abbiamo scoperto del prigioniero, ma al tempo stesso rimarca la sua natura ambigua, con l’inquadratura di una smorfia nell’ombra che potrebbe essere un sorriso.
Insomma, Castle Rock vi piacerà particolarmente se amate la letteratura di King, perché vi sentire un po’ a casa, ma tutto sommato potreste trovarla interessante anche in caso contrario. Questo sempre ammesso che vi piacciano le serie TV, ovviamente. Io non ne sono affatto un fanatico, guardo quasi esclusivamente serie antologiche, e non mi avventuro mai in roba che sospetto possa avere più di due stagioni. Lo faccio perché quello che voglio è una storia interessante e compiuta, come accade (o dovrebbe accadere) in un film. Le serie sono un prodotto quasi sempre molto diverso, dove si costruiscono personaggi fatti per interessare il pubblico e incollarlo allo schermo, a prescindere da cosa salta poi in mente agli sceneggiatori. Castle Rock è una buona serie con ottime idee, ma non è niente che un bravo regista non avrebbe potuto fare in un film di due ore, rendendo la storia più decisa e ficcante. Sono diversi i momenti in cui quello che accade è inutile o volutamente poco chiaro, così come ci sono personaggi (per esempio quello di Jackie Torrance) che fondamentalmente non hanno nulla da dire e potrebbero sparire senza cambiare il corso delle vicende. Niente di particolarmente grave intendiamoci, è ciò che capita nel novanta per cento delle serie TV ed il più delle volte è fatto per dar modo agli spettatori di fare pipì o strapazzare un po’ il gatto.
La serie è già stata rinnovata per una seconda stagione, ma fortunatamente pare che non tradirà la natura antologica e presenterà una nuova trama con nuovi personaggi. Se dovesse tradirla, mi si spezzerebbe davvero il cuore e la cosa mi porterebbe a una probabile morte prematura. Avendo dato chiare disposizioni di essere seppellito nell’antico cimitero Micmac dietro casa, la mattina dopo sarei davanti all’uscio di J.J. Abrams per fare i conti.