Da qualche parte, sul manuale del perfetto recensore, ci sarà certamente una pagina dedicata all’obiettività. Un capitolo serissimo che vi spiega di quanto dobbiate sforzarvi di parlare del valore intrinseco dell’opera, del suo essere effettivamente universale ed eterna, a prescindere da quanto voi l’avete amata o odiata. Di quanto dovete essere immuni ai facili coinvolgimenti che derivano dal vostro vissuto personale, dalla vostra età e dalle vostre manie. Ecco, adesso voglio che strappiate quella pagina (cit.).
Perché diciamocelo, potremmo anche stare qui a disquisire di quanto questa serie di Netflix sia oggettivamente una produzione valida e originale o per contro di quanto sia derivativa e furba, ma il fatto è che se amerete o odierete I am not okay with this sarà per motivi complicati e del tutto personali, tanto quanto lo è l’adolescenza. Io per la cronaca, nonostante i quarantamila anni che ho sul groppone, dall’adolescenza non ne sono veramente mai uscito e questo fa sì che i racconti di formazione, soprattutto quelli pop-rock come la serie in questione, su di me facciano presa più che se fossero la mia stessa autobiografia.
I am not okay with this è la libera trasposizione in serie TV dell’omonimo fumetto di Charles Forsman, autore anche di The end of the fucking world, altra serie Netflix tratta dalla graphic novel dello stesso autore e di cui tutti dicono un gran bene (e che a questo punto io comincerò a guardare tra al massimo dieci minuti). Visto che i produttori sono gli stessi di Stranger Things, qualcuno cercherà di vendervela come qualcosa di simile o perlomeno sulla stessa lunghezza d’onda, ma io non credo, anzi penso che per certi versi siamo quasi agli antipodi. In entrambe le serie la timeline è quella dei gloriosi anni ’80 (“gloriosi” oggi eh, all’epoca erano nel migliore dei casi “carini”, più spesso “tollerabili”) ma Stranger Things è fondamentalmente un “calco” dei film di genere di quegli anni (ET e Goonies, per citare i più facili) e il suo essere derivativo è la sua più chiara ragione di esistere (mi riferisco alla prima stagione). I am not okay with this invece è prima di tutto un curioso e toccante racconto coming-of-age e poi si svolge negli anni ’80, così come “Il giovane Holden” è ambientato a fine anni ’40 o “Piccole Donne” nella seconda metà dell’800. Ci sono inevitabilmente tantissime citazioni musicali e cinematografiche eighties, ma, come dire, mentre in Stranger Things sono il piatto forte, qui sono un ottimo contorno.
Se siete tra quelli che, come me, pensano che fondamentalmente guardare le serie TV tolga troppo tempo ai film, potete tranquillizzarvi: I am not okay with this è di sette puntate di circa venti minuti l’una, quindi dura sostanzialmente come una pellicola breve di Scorsese. Inoltre tutte le puntate sono dirette da Jonathan Entwistle (regista già di molti episodi della prima stagione di The end of the F***ing World) e questo per mia esperienza è un gran bene, perché dà alla serie quella compattezza e quel pizzico di autorialità che non guastano mai.
I am not okay with this è convincente da un sacco di punti vista, ma se dovessi sceglierne uno su tutti è il tono. L’incipit è pazzesco: Syd cammina per strada coperta di sangue, la faccia stralunata, sentiamo le sirene delle macchine della polizia in sottofondo, la sua voce fuoricampo che dice “Dear diary…. Go fuck yourself!” e attacca I’m not like everybody else dei Kinks, con quell’accordo detuned che diventerà il marchio musicale in tutti gli episodi. Venti secondi spiazzanti e perfetti in cui è condensato tutto il tono della serie, il suo mix di dramma, orrore, commedia, leggerezza e ironia, messi in scena grazie a un’assoluta grande protagonista: la musica. Più di quaranta indovinatissime canzoni (che spaziano dagli anni ’50 ai giorni nostri, quindi non solo eighties), che su 140 minuti di durata della serie credo rappresentino una densità musicale mai registrata prima, musical compresi. E qui c’è da fare anche un serio discorso sulle Bloodwitch, il gruppo di culto di Stan. Un band immaginaria, mai esistita negli anni ’80, inizialmente solo un nome fittizio per la bellissima Fly scritta per la serie da Graham Coxon dei Blur e cantata dall’attrice Tatyana Richaud. Coxon, evidentemente e più che giustamente esaltato per Fly, ha poi pensato “Che disco avrei voluto ascoltare negli anni ’80, se avessi avuto l’età di Stan?” e col nome Bloodwitch ci ha fatto un intero LP. Allora, io sarò fanatico di musica finché volete, e le Bloodwitch non diventeranno certo i Blues Brothers, ma questa per me è una storia dannatamente bella.
E oltre alla musica, a sostenere questo tono ci sono ovviamente i dialoghi. Non avendo letto il fumetto non so dire se sono tutti farina del sacco di Forsman, ma di sicuro quelli della serie riescono a conquistare chiunque, come Brad Pitt nei panni di Joe Black. Dai, riuscite davvero a resistere a una cosa del genere?
“Banana Wigglesworth sa di essere un riccio? E se sì, credi che gli piaccia?
“Pivello, fidati, Banana è orgoglioso di essere un riccio.”
Tutta l’impalcatura della narrazione è in realtà un grande dialogo, quello di Syd al suo diario segreto. La voce narrante è una cosa terribilmente pericolosa, un po’ perché per sua natura stride con il linguaggio filmico (che racconta per immagini) e un po’ perché se usata male può diventare terribilmente noiosa e deprimente. Però quando funziona, come in I am not okay with this, funziona alla grande. Con questo espediente riusciamo a sentire i pensieri della protagonista direttamente dalla sua voce, cosa che in generale è prerogativa dei romanzi (o dei fumetti), e questo ha un potere di coinvolgimento altissimo. In questo dialogo continuo col diario, Syd condensa tutto il dramma e la confusione di un’adolescente, ma fortunatamente anche la sua crescente presa di coscienza e la capacità di reagire per salvarsi:
“Mio padre era come me, questo l’ha distrutto.
Devo fare una scelta: o mi estraneo dal mondo e sparisco,
permetto che questa cosa distrugga anche me,
oppure posso preparare i pancake!”
I personaggi, come sempre quando dietro alle quinte c’è un autore e del materiale interessante, sono un altro dei punti di forza di I am not okay with this. In primis Syd e Stan ovviamente, assolutamente perfetti e irresistibili, e pur avendo qualcosa di inevitabilmente già visto, non rientrano davvero al cento per cento nei cliché degli adolescenti a cui il cinema ci ha abituato. C’è sempre un lato sorprendente in quello che dicono e fanno, forse perché sono un po’ più vere o perlomeno un po’ più verosimili le loro azioni/reazioni (vedi per esempio il momento imbarazzante e bellissimo in cui Stan accompagna Syd lungo la strada).
Per gli attori o vado sul vocabolario dei sinonimi Treccani a cercare nuovi e inauditi elogi oppure me ne sto zitto. Sophie Lillis è brava che più brava non si può e non è certo un caso se viene scritturata continuamente per interpretare la versione giovane di attrici straordinarie come Amy Adams (nella meravigliosa serie Sharp Objects) e Jessica Chastain (in IT di Muschietti). Syd è di una goffaggine leggendaria, a volte anche di quell’antipatia adolescenziale da pugni in faccia, eppure quella portata in scena da Sophie Lillis è contemporaneamente anche di una bellezza e fragilità disarmanti. E Wyatt Olef (anche lui già visto in IT, curiosamente sempre col nome Stanley) è una grandissima sorpresa, perché interpreta il personaggio che probabilmente vi rimarrà più impresso alla fine della serie. Negli anni ’80 un personaggio del genere, appassionato di musica (quindi vinili e musicassette), di film (quindi VHS), di vestiti (quindi giacche e camicie inguardabili) e di marijuana (quindi marjuana), sarebbe stato con ogni probabilità molto sopra le righe. Qui non lo è mai veramente, pur avendo molto spazio (molto più rispetto al fumetto), è semplicemente un grande protagonista, di una simpatia e dolcezza fuori scala. Stan è “The master of zero fucks” (letteralmente “Il maestro del zero sbatti”), praticamente tutto quello che avrei dovuto essere io fin da subito, invece di diventarlo solo all’Università.
Anche i rapporti e le relazioni tra i personaggi sono sempre ben raccontati e convincenti. A volte si tratta giusto di un accenno (vedi per esempio quello tra Stan e il padre), altre volte sono approfonditi (il difficile rapporto tra Syd e la madre dopo il suicidio del padre), altre volte ancora sono una parte determinante della storia e del percorso di formazione della protagonista (la relazione con l’amica che diventa qualcosa di diverso). Anche il rapporto col fratellino pivello, che sarebbe potuto facilmente sfociare in una serie di sketch con un personaggio macchietta, è invece raccontato ogni volta in modo adorabile (ma quanto è assurdamente bella la scena del fratello che si comporta da padre quando le due ragazze escono per andare al ballo?).
Ah sì e poi ci sono i superpoteri. La fantascienza e l’orrore. Nasi che sanguinano, ricci che muoiono, palle da bowling che volano, scaffali che crollano, teste che esplodono. Ma ci sono per davvero? Per un po’ avrete l’impressione che non succeda veramente, che siano in fondo solo l’impressione di una protagonista in stato confusionale (e almeno una teoria che sostiene sia tutto uno scherzo della mente di Syd ci sarà di sicuro nello sterminato e schizofrenico spazio della Rete), ma l’ultima puntata lascia ben pochi dubbi. Il fatto è che questa componente fantastica è talmente esplicitamente metaforica che I am not okay with this difficilmente può essere percepita come una serie di supereroi o di fantascienza (almeno non questa stagione, se ce ne sarà una seconda vedremo). Non ci vuole certo un genio per capire che horror e fantascienza hanno radici fortemente simboliche (in particolare il primo), ma in I am not okay with this i superpoteri sono di fatto solo un modo tra i tanti per parlare d’altro, per mostrarci l’adolescenza di Syd, il suo sentirsi diversa, piena di energie e capacità inespresse e per questo ancora pericolosa per sé e per chi le sta attorno. Un modo per raccontarci di questo suo segreto inconfessabile, condiviso solo col diario e Stan, e di scoprirsi finalmente così simile al padre e quindi meno sola e più forte.
Quanto è citazionista I am not okay with this? Tanto, tantissimo. A meno che non siate drogati terminali di cultura anni ’80, alla prima visione noterete giusto le citazioni più lampanti (ma se avete tempo da perdere in Rete si trovano ottimi articoli in cui vi spiegano per filo e per segno tutto quello che non avete notato). Carrie è ovviamente la citazione più in vista, ma è giocata benissimo (alla fine dell’ultima puntata noi sappiamo già che Syd finirà coperta di sangue come Carrie, ma il modo in cui succede è spiazzante). Poi c’è il momento Breakfast Club, quando vengono messi in punizione in palestra, forse un po’ più forzato, praticamente una strizzata d’occhio, ma comunque godibile. E inevitabilmente nell’intorno del ballo della scuola c’è anche un bel po’ di un altro film cult di John Hughes, Pretty in pink, anche se le carte sono talmente mischiate bene da non dare nessun fastidio. Visto che siamo qui in ballo a snocciolare film epici, aggiungiamo pure che Forsman ha sicuramente passato i suoi pomeriggi adolescenziali a vedere e rivedere Heathers (dannazione, chi non lo ha fatto?) perché la protagonista che parla al proprio il diario, l’ambientazione e l’ironia grottesca sono già tutte nella pellicola con quella dea di Winona Ryder.
Se avete avuto il tempo di leggere il mio lungo sproloquio fin qui, oltre ad avere un bel coraggio avete sicuramente anche altre due ore e ventisei minuti da perdere, quindi a seguire la playlist completa delle canzoni di I am not okay with this.