Insomma, si sa, remake/reboot/revival sono l’occasione d’oro per tutti quei vecchi cine-borbottoni che non vedono l’ora di massacrare una pellicola, figuriamoci poi se qualche regista pretende di reimmaginare un film o un libro a cui sono terribilmente affezionati. Volete mettere il gusto di sparare a zero su un’opera, quando tutto lo sforzo che si deve fare è paragonarlo a quella loro verità assoluta che è l’originale?
I rifacimenti svogliati sono sicuramente la moda di questi anni, per la cronica carenza di idee delle case cinematografiche e la loro scarsissima propensione al rischio di presentare al pubblico qualcosa di nuovo, ma è anche vero che la reinterpretazione è una tendenza sempre esistita nel cinema, e più in generale nell’arte, e non è necessariamente indice di sterilità creativa. Nel ventennio più epico per la cinematografia di genere, gli anni ’70-’80, sono state sfornate ottime produzioni (possiamo anche dire capolavori, se volete) come The Fly di Cronenberg, The Thing di Carpenter o The Body Snatcher di Kaufman, tutte rigorosamente remake, reboot o ri-quello che volete voi.
Bene, questo pippotto iniziale era giusto per farvi capire che io mi sono avvicinato a questo nuovo Pet Sematary con aspettative molto basse (sia perché conosco i miei polli hollywodiani, sia perché ignoravo fosse diretto da Kevin Kölsch e Dennis Widmyer, la coppia di registi dell’ottimo Starry eyes) e tuttavia senza particolare spocchia, perché in fondo quello che conta è vedere un buon film e chissenefrega se non assomiglia a Cimitero vivente di Mary Lambert del 1989. Piccola precisazione per perdere tempo: per me l’originale di un film tratto da un ottimo romanzo come quello di Stephen King, è l’ottimo romanzo, quindi già il film della Lambert lo considero una reinterpretazione. Già che stiamo perdendo tempo, mi tolgo un sassolino dalla scarpa: se c’è una cosa che non ho mai sopportato in Pet sematary del 1989, e l’ho rivisto anche qualche giorno fa perché nella vita si cambia e quindi le cose vanno riviste e rilette ogni dieci anni, è l’attore che interpreta il protagonista Louis Creed. Che intendiamoci, non se la cava male del tutto nella seconda parte della pellicola, quando deve interpretare un uomo che ha perso un figlio e il senno, ma che nei momenti più normali è una maschera inespressiva unita a un viso di rara antipatia. Ecco, in questo remake hanno fatto di peggio, perché ad interpretare il padre Louis c’è Jason Clarke, colui che è riuscito nell’impresa epocale di affossare il mito di John Connor e che non riuscirebbe ad essermi simpatico nemmeno se mi organizzasse un appuntamento con Emilia Clarke in persona. Questo inficia la qualità del film? No, solo quella del mio umore, quindi proseguiamo.
L’inizio di Pet Sematary segue la regola aurea di ogni opera kinghiana che si rispetti, cioè cominciare con l’inquadratura aerea di una foresta, possibilmente del Maine (o almeno che sembri tale), per poi arrivare a scoprire le strade della cittadina in cui la storia (e l’orrore) avranno luogo. Il film della Lambert, che sia piaciuto o meno, è pieno zeppo di scene e personaggi che sono diventati iconici in brevissimo tempo: il gatto Church, lo studente-spirito guida Victor Pascow, il cimitero degli animali e il terreno Micmac, i camion lanciati a gran velocità sulla statale. In particolare ce ne sono però tre fondamentali che sono estremamente ben raccontati e che nessuno degli spettatori entrati in sala nel 1989 si può essere mai più scordato: la sorella Zelda, il conflitto tra Louis e i suoceri e la seconda morte di Gage. E sono tutte cose terribilmente strazianti. Zelda, ammalata di meningite spinale, è il personaggio più spaventoso e allo stesso tempo più drammatico della storia, perché ha a che fare oltre che con la paura anche con quei sensi di colpa che prima o poi qualsiasi famiglia conosce. Il rapporto tra Louis e i suoceri, che esplode durante il funerale di Gage, finisce per mostrarci una delle scene più shockanti della storia dell’horror (non c’è sangue, non c’è spavento, c’è solo l’orrore umano di una famiglia che litiga di fronte alla bara di un bambino, una bara che cade, si apre per qualche secondo e mostra il piccolo braccio). E infine la morte di Gage per mano di Louis, quando il padre capisce che è l’unica scelta sensata, gli infila la siringa nel collo e il piccolo si allontana per morire in un angolo, dicendo “No fair! No fair…”. Non so voi, ma l’ultima volta che l’ho visto questa scena mi ha spezzato il cuore.
Di questi tre elementi drammatici in questo Pet Sematary rimane in definitiva solo Zelda, ma con una funzione molto più “di servizio”, una figura che sembra avere il solo scopo di portare in scena il terrore. Quello che manca, cioè, è tutta quella parte profondamente umana che è (oltre alla capacità di spaventare fino al midollo) il marchio di fabbrica di King. Questo, e mentre lo scrivo mi rendo conto che probabilmente sono davvero impazzito, è paradossalmente uno dei punti di forza del remake. E non lo dico perché lo preferisca, secondo me quello della Lambert è un ottimo film proprio perché tocca splendidamente temi come la morte, l’incapacità di separarsi da un proprio caro e i conseguenti abissi di follia in cui si può sprofondare, ma perché se fino all’incidente col camion era in sostanza una copia un po’ inutile del film precedente, da quell’istante diventa qualcosa di diverso. La diversità non è sempre un bene ovviamente, e sono certo che a molti da quel momento sarà venuta voglia di spegnere il televisore e chiamare la Paramount per chiedere se non fossero diventati matti tutti quanti, ma in questo caso funziona e rende la seconda parte più godibile. Il padre che corre disperato per salvare Gage mentre l’enorme autocisterna piomba velocissima sul figlio (scena che abbiamo visto mille volte e sappiamo in quale modo tragico finisca), è una gran furbata. Proprio una gran furbata scritta a tavolino dagli sceneggiatori per stupire. Ma ci riesce. Si rimane di sasso a guardare il padre e il bambino, il camion che si ribalta, la cisterna che si stacca e viene proiettata sulla strada. E a quel punto si fa un agghiacciante due più due.
Così la storia di Pet Sematary devia decisamente rispetto all’originale e diventa inevitabilmente meno kinghiana. Anche il fatto che Louis non uccida per la seconda volta Church, ma lo abbandoni nel bosco, è l’evento cardine di un effetto farfalla che porterà la storia a questa sua seconda parte totalmente nuova. La tematica del dolore per la perdita di un figlio inizialmente sembra ancora fare capolino (quando Ellie ritorna a casa e il padre le fa il bagno e la mette a letto sono un momento davvero bello del film, Ellie fa una tenerezza e una tristezza infinite), ma questi toni lasciano rapidamente sempre più il passo a un horror puro, che più va avanti e più assomiglia a uno slasher. Gli altri elementi ci sono un po’ tutti e in qualche caso funzionano forse anche meglio, perlomeno fanno oggi una figura migliore. Diciamocelo, il gatto Church del ’89 in certi momenti risulta un po’ buffo, questo è decisamente più credibile e anche gli attori fanno tutti un’ottima figura (sì, anche tu spregevole Jason Clarke). La messa in scena del cimitero degli animali in certe scene è forse addirittura più ispirata e quella processione coi bambini mascherati da animali, per quanto non abbia praticamente nessun senso e serva probabilmente solo a giustificare la maschera di Ellie, rende l’atmosfera ancora più evocativa. Chi non è davvero all’altezza credo sia il buon vecchio Victor Pascow, ma qui c’è poco da fare, perché questo è il classico personaggio che funziona alla grande sulle pagine di King ma che portato in scena è solo una gatta da pelare. L’unica salvezza è avere a disposizione una faccia come quella di Brad Greenquist, ma è roba che capita ogni cent’anni.
Per i detrattori di questo Pet Sematary, il finale sarà probabilmente la classica goccia che fa traboccare il vaso. Io credo invece che sia una conclusione perfettamente in linea con lo spirito del film, con quella cattiveria elegante che strizza l’occhio allo spettatore. Anzi, se per un istante riuscite a mettervi nei panni del Wendigo, è addirittura un lieto fine.
Eh, il vecchio Paxcow era davvero tanta, tanta roba. Tra lui e Zelda non so chi mi facesse più paura.
Detto questo, a me questa rilettura è piaciuta. Certo, si poteva fare di più con Jud, davvero sprecato nonostante la presenza di Litghow, e il finale è troppo farsesco rispetto alla tristezza di quello originale, ma comunque un ottimo remake, che, come dici tu, non si limita a copiare ma reimmagina.
Vero sì, anche Jud è un po’ buttato lì come personaggio di servizio. Senza infamia né lode ma giusto perchè c’è Litghow.