Non che mi aspettassi che l’Islanda potesse essere dipinta come una specie di Cartoonia del Nord, popolata di personaggi paffuti, soli canterini e uccellini festosi. Questo no. Però avrei detto che sarebbe stata raccontata come un luogo irreale, da fiaba nordica, dove la dittatura di Madre Natura fosse sufficiente a far rigare dritto tutti quanti. Dove, se proprio ti fosse venuta voglia di combinare qualcosa di anche solo un po’ cattivo, quella terra inospitale ti avrebbe preso a calci nel culo fino a farti ricordare chi comanda.
E invece l’Islanda messa in scena da questa splendida pellicola è ancora diversa, più dura e più glaciale di quello che si sarebbe potuto immaginare. Ed è una freddezza raccontata molto esplicitamente dalla fotografia plumbea, in cui la natura è quasi sempre lontana, una freddezza che entra nelle ossa ed è fatta di atmosfere marmoree, di edifici di vetro e metallo, di luci al neon e di uffici. Ma è anche, anzi forse soprattutto, una glacialità a livello umano, che è raccontata in modo superbo dai volti degli ottimi attori durante i frequenti primi e primissimi piani. Inquadrature che la fanno da padrone in questo film, dove tutta la tensione è negli occhi e nelle espressioni dei protagonisti quando si tratta di scegliere ed agire. Vargur comincia a pugnalarvi alle reni al primo minuto e non vi molla fino alla fine dei titoli di coda. Sì, perché a luci accese sarete ancora lì, scossi, straziati, tumefatti, con la testa che ribolle a pensare: “No! Non è possibile che sia accaduto. E ora? Cosa diavolo succederà, ora?”.
Nonostante questo, nonostante come in tutti i buoni noir il punto fondamentale non sia l’intreccio bensì le atmosfere e le suggestioni che vengono create, la sceneggiatura di Vargur è solidissima. Asciutta e ficcante come dovrebbero essere sempre tutti i film che vogliono colpire duro. Non si perde mai negli stereotipi e nelle forzature tipiche di tanti polizieschi americani, ma dipinge verosimilmente questa storia spietata di ex detenuti, di avvocati corrotti, di contrabbando di cocaina e di ragazze nei guai fino al collo per trasportarla. Ed è un film violento Vargur, anche se la violenza, quella vera, quella fisica, si riduce forse solo a tre o quattro momenti in totale, che però vi rimarranno tutti ben impressi. Non c’è nessun gusto nel mostrare questa violenza, nessun desiderio di spettacolarità, è un fatto semplice ed inevitabile come lo è la cronaca di un omicidio. È un quadro feroce, che spesso mette a disagio, e la colonna sonora invisibile e ansiogena è indovinatissima per accompagnarne l’atmosfera.
Le figure che si aggirano in scena sono avvoltoi, pronti a tutto per soddisfare la propria fame e garantirsi la sopravvivenza. Ognuno è mosso dalla propria personale ragione, a volte questa ragione forse è addirittura comprensibile (come nel caso della giovane Lena), altre volte qualcuno sembra voler dire basta e fermarsi (l’ex detenuto Atli), ma per nessuno c’è mai veramente via di scampo, quasi un Male superiore abbia un obiettivo ed esiga procedere implacabile. Ma non c’è veramente un male superiore, c’è solo un essere umano, Erik, superiore a qualsiasi senso morale e a qualunque pietà umana. L’attore Gísli Örn Garðarsson mette in scena un personaggio interessantissimo, straordinariamente calmo e controllato, quello che inizialmente sembra essere la figura più lontana dagli ambienti della delinquenza e quindi la meno pericolosa. Ma il personaggio nel corso della storia cresce, si sviluppa, la sua continua calma si dimostra sempre più innaturale, una dimostrazione di connaturata e totale amoralità. Erik è un villain splendido, incredibile, un calcolatore letale che meriterebbe un altro film solo per gustarci tutte le altre sue malefatte. Alcuni dettagli di lui, come la sua ossessione per la ex, il suo vederla e sentirla ovunque in casa, l’inquadratura del suo vestito rosso, unica nota di colore in mezzo a un’infinità di fotogrammi grigi, cercano di raccontarci un po’ meglio la sua personalità egocentrica e patologica. Se proprio volete trovare una piccola lacuna in Vargur è questa, il non aver approfondito, o il non aver analizzato meglio, gli aspetti psicologici di questo fantastico personaggio.
Anche il gioco guardie e ladri funziona piuttosto bene ed è quello che regala quei pochissimi momenti di azione nel film. Le indagini della polizia islandese sono molto concrete, verosimili, con un intervento della tecnologia limitato a cellulari e telecamere di sorveglianza e senza il ricorso a macchinari improbabili. Non ci sono eroi tra questi poliziotti, solo persone che fanno il loro lavoro in modo coscienzioso e attento. La poliziotta che segue l’indagine è una bellissima figura di contrasto del male che si consuma attorno a Lena, una donna dura, con un phisyque du role lontano dagli stereotipi dei polizieschi a cui ci siamo abituati. E il finale di Vargur, per quanto mi riguarda, è un tocco di classe. Una chiusura più che da noir quasi da film giallo.
Una piccola nota di carattere medico-sanitario per il pubblico: chiunque soffra di particolare sensibilità alla vista del vomito altrui e schifezze correlate è pregato di astenersi dalla visione della pellicola, perché il regista Börkur Sigþórsson si è prodigato con grandissima dedizione per mostrarci nei minimi particolari le scene che possono malauguratamente capitare se avete la pessima idea di ingerire una quantità eccessiva di ovuli di cocaina.