TIME TO HUNT – Beetlejuice

TIME TO HUNT

“Nessuno vi aiuterà.
Non è più il mondo che conoscevate.
Non dimenticarlo.
Ovunque andiate…
…non avete scampo”

Il cinema sa fare benissimo un sacco di cose, ma quella che gli riesce meglio in assoluto, e che come potete immaginare è anche la mia preferita, è la sua capacità di scatenare le nostre paure ataviche. Non credo sia nemmeno tanto una questione di genere, perché in fondo qualsiasi storia, quando necessario, può giocarsi la carta della paura senza per forza essere un horror.

Time to hunt - Recensione film - screenshot06

E quanto funziona dannatamente bene sullo schermo la paura di essere inseguito? Se dovessi fare un elenco di tutte le pellicole che in un modo o nell’altro hanno a che fare col fatto di essere pedinato, rincorso, braccato o cacciato, non mi basterebbe la mia misera vita. Un piccolo gioiello come It follows è riuscito a raccontare questo terrore ancestrale in modo esemplare con una storia che, a partire dal titolo, è la trasposizione cinematografica della semplice paura infantile “La cosa che mi segue”. Che poi questa cosa che ci segue abbia anche cattive intenzioni, come probabilmente è stato per i nostri sfortunati antenati che dovevano procurarsi il cibo ai tempi in cui supermercati e ristoranti non erano ancora stati inventati, è una cosa abbastanza ovvia, non c’è bisogno che approfondisca io.

Time to hunt - Recensione film - screenshot01

Time to hunt, scritto e diretto dal coreano Sung-hyun Yoon, parte in tutt’altro modo, per arrivare proprio qui, con un’evoluzione che per alcuni (tipo me) potrebbe anche essere spiazzante. La prima parte della pellicola fa infatti pensare a un heist movie, con i giovani protagonisti che dopo aver recuperato il compare appena uscito dalla prigione si lanciano nel classico ultimo-grande-colpo che li sistemerà per sempre e possibilmente su un’isola con vista sull’oceano. C’è però qualche ingrediente insolito, come una vaga distopia sullo sfondo (la Corea del Sud è piombata in una gravissima crisi economica, con miseria, scontri sociali, corruzione e altre disgrazie) e una bella e forte amicizia tra i giovani protagonisti, che a conti fatti è probabilmente l’aspetto più interessante dell’intera vicenda.

Time to hunt - Recensione film - screenshot03

Il colpo dei ragazzi al Casinò della malavita viene tutto sommato bene, la banda si ricorda di tutto, persino di far sparire gli hard disk del sistema di videosorveglianza, e riesce a scappare col malloppo senza nemmeno un graffio. Piece of cake, direbbe Duke Nukem. Al cinema però, soprattutto se è passata solo mezz’ora dall’inizio del film, le cose non filano mai così lisce. Certo, il dubbio in fondo a qualcuno poteva pure venire, perché se tra tutti quelli che puoi rapinare, rapini la mafia, è possibile che la mafia un po’ s’incazzi. Ma cosa vuole, signora mia, son ragazzi.

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Time to Hunt a questo punto prende quella piega, per me inaspettata, che renderà anche chiarissimo il suo titolo. Non è necessariamente un cattivo twist, credo che a me abbia fatto un brutto effetto solo perché mi sono sentito derubato della pellicola che ormai mi ero messo in testa di guardare in compagnia dei miei pop corn al doppio burro. Da quel momento infatti comincia la caccia spietata di Han, il killer assoldato dalla mafia, ai quattro ragazzi. Un cambiamento di tono graduale, che sarà completamente compiuto circa a metà film, che trasforma la pellicola da poliziesco in salsa coreana con protagonisti scanzonati a thriller un po’ più cupo e dalle venature drammatiche.

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L’assassino Han è un buon personaggio. Glaciale, inarrestabile e invincibile come ogni segugio che si rispetti. In questo è impossibile non vedere le strizzate d’occhio al più grande e malefico segugio che il cinema ricordi, il buon vecchio Terminator. Anche gli altri personaggi funzionano decisamente bene. Anzi, forse i quattro ragazzi, con quel loro rapporto fraterno e i loro comportamenti spesso ingenui, sono il vero elemento portante di tutto il film. In fondo la caccia di Han, soprattutto se paragonata ad altri film simili, non è sempre così ansiogena e terrificante come ci si aspetterebbe. Quello che fa funzionare il tutto è proprio il fatto che è semplice affezionarsi ai protagonisti e pregare che riescano a realizzare il loro sogno di scappare da quella Corea orribile. Ed è altrettanto facile provare una stretta al cuore quando capiamo che l’amico che arriva sull’isola è solo un’allucinazione di Jun Seok. Insomma, Time to hunt cerca tante strade, ma probabilmente la più riuscita è anche quella meno ovvia e spettacolare.

Time to hunt - Recensione film - screenshot04

Come spesso capita nei film “scritti e diretti da”, la sceneggiatura di Time to Hunt è interessante, ma non a prova di bomba. Ci sono alcuni passaggi un po’ facili e che, se uno ci pensa troppo, non tornano: il ragazzo che fugge da un bagno senza finestre, l’amico che viene portato all’ospedale per l’estrazione di un proiettile senza che nessuno faccia loro domande, la distopia coreana abbozzata sullo sfondo ma mai veramente utile ai fini della storia. In fondo però, nel grande bilancio finale dello spettatore, non sono più fastidiose di tanto, soprattutto considerando che tutta la parte più “tecnica” (regia, montaggio, fotografia, scenografia) è come sempre di ottima fattura. Alcune scene sono perfettamente riuscite, quasi memorabili, una su tutte quella in cui Jun Seok è seduto al bancone del bar e capisce che la chiamata all’amico squilla invece sul telefono di una persona seduta nell’ombra.

Nota musicale: se in Time to hunt badate ai suoni, vi accorgerete che la presenza del killer è descritta un paio di volte da un commento sonoro identico a quello che accompagna il T1000 in Terminator 2, quel suono grave e inquietante di synth che non fa dormire la notte nemmeno Schwarzenegger. Se siete videogiocatori, potete verificare che la stessa identica cosa accade in Assassin’s Creed Odissey, quando compare un cacciatore di taglie. Insomma, sembra che ormai quel suono sia diventato canonico per segnalare la presenza di qualcuno che vuole farvi la pelle. Fateci attenzione, se volete vivere.

Da Netflix un poliziesco coreano godibile e ben realizzato, che merita la visione forse più per i suoi personaggi che per il genere di appartenenza.

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